Finestra su Haiti, di Pollyanna in favela

Una doccia a fine giornata rilassa, distende, lava via tutto. Sfoca le immagini, sfuma gli odori, alleggerisce la pressione degli sguardi e delle carezze rubate.
Può anche essere stata una giornata sfiancante, a digiuno, cocente, che non ha nulla del gusto di una giornata caraibica. Ma quella giornata per te finisce: rientri nel tuo appartamento arredato anonimamente e ci trovi l’elettricità, anche se fluttuante, l’acqua corrente, anche se il rubinetto perde, il cibo nel frigorifero e i fuochi per cucinare.
Kimberly e Mickenson, invece, restano là, a camminare a piedi nudi in quella fogna a cielo aperto, a sperare che questa notte le bande non si scontrino e non crivellino di colpi la loro casa di lamiera, a rovistare nella spazzatura per cercare qualcosa da mangiare, pregando perché non piova e la situazione non peggiori.
Port au Prince è un saliscendi di strade e viuzze, un dedalo di cemento a un centinaio di metri sul livello del mare in cui vive un milione e mezzo di abitanti… che produce tonnellate di immondizia senza curarsi di dove finiranno.
I rifiuti pervadono a slavina il ghetto di Kimberly e Mickenson, ecco dove finiscono, nella loro Cité Soleil, dove si spala lo schifo e dove parlare del coronavirus che uccide suscita un sorriso amaro.