Oltre il nord della Nigeria c’è Abuja, fondata negli anni settanta e nominata capitale al posto di Lagos, ufficialmente perché la politica potesse trovarsi equamente vicina al sud col suo petrolio (il petrolio del delta del Niger) e al nord, privato di tutto; più verosimilmente perché, come fu per Brasilia, essa si trovasse equamente lontana da tutto. Mentre il mio aereo atterra ad Abuja faccio a tempo a scorgere, alla periferia della giovane metropoli, villaggi di fango e paglia nei quali si incrociano strade di fango; voluttuose nuvole che avvolgono colline dalla cima arrotondata e terre costellate di specchi d’acqua generati da una stagione delle piogge ancora acerba e che comunque, anche maturando, non si esprimerà con la foga della stagione delle piogge di un Paese della piena fascia tropicale.
Scendo dall’aereo e mi ritrovo a meravigliarmi che nessuno mi chieda di lavarmi le mani con acqua e cloro e che nessuno mi controlli la temperatura. Mi torna in mente il battello notturno a largo di Freetown e l’auto che un anno e mezzo fa dall’aeroporto mi portarono a far parte di quelli che combattevano l’ebola. Giungo alla barriera dei controlli immigrazione e una divisa militare mi guarda male, prende il passaporto e asserisce che ci sono problemi, mi manda da un altro soldato che mi guarda col fucile e mi chiede dove sia la lettera di invito in Nigeria, gliela mostro, no problem, yes sir, yes ma’. C’è sempre qualche difficoltà presso gli uffici immigrazione, come quando arrivai per la prima volta in Brasile: chiunque tu sia, dovunque tu vada, la dogana ti offre il primo brivido.
Esco dalla zona di mezzo, entro in città, la gente è vestita bene, e soprattutto è vestita; ci sono valigie, giacche, cravatte, orologi d’oro. Attorno a me strade larghe, ville di lusso, condomini ordinati, cerco le fogne a cielo aperto, non le trovo; a parte le flotte di motorini contromano (la cui vista mi risulta già più familiare) Abuja appare ordinata e in salute, non è Rio incastonata dei mattoni rossi delle favelas, non è Freetown, unica enorme favela. So che dove andrò a lavorare per parte del mio tempo, al nord della Nigeria, sarà molto diverso da qui, so anche che è solo questione di tempo e anche ad Abuja in qualche forma si faranno visibili le baraccopoli; ma questa che sta cominciando è un’altra storia ancora, una storia nuova. Intanto il volto di un bimbo annoiato dal traffico si affaccia al finestrino posteriore di un auto in coda e mi osserva. Concedendogli uno sguardo di uomo bianco accendo la curiosità che ha negli occhi, alzo la mano e l’agito per fare il ciao che unisce tutto il mondo, allora il bimbo ricambia e il suo volto si apre in un sorriso di meraviglia: questo è sempre lo stesso, lo stesso di ogni bimbo di favela.
Questa volta ci sarà da addentrarsi in una regione della Nigeria che passa da Abuja fino a raggiungere la Nigeria del nord, ai confini con il Chad, il Niger e il Cameroon. Ti racconterò man mano che cosa mi porta qui, più avanti, tanto abbiamo tempo. Dunque, se ti va, resta affacciata (o affacciato) alla Finestra sulla Nigeria (del nord), troverai il collegamento a tutti i racconti su questa pagina: condividili se ti va! Puoi seguire anche la finestra facebook e il mio twitter per restare insieme mentre attraversiamo quest’altra parte del mondo, quest’altro pezzo di umanità, quest’altra favela.
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