un impiegato in favela

Expulsadeira (l’ultimo racconto, per la seconda volta)

In Finestra sulla favela Rocinha, Il popolo di Rocinha, Storie di Pacificazione, Vita da favelado: il nido d'aquila on 17 giugno 2014 at 06:17

favela Rocinha, Rio de Janeiro, Brasile, #finestrasullafavela

La saideira, dal verbo “sair” che vuol dire “uscire”, è l’ultima bevuta prima di tornare a casa, prima di andar via, appunto. La regola vuole che se ti viene proposta dai tuoi compagni di bevute quando accenni all’intenzione di tornare a casa, non puoi rifiutarla; d’altra parte, dopo la saideira ti viene riconosciuto il diritto di dimetterti (e non è conquista da poco). Dopo la saideira, però, potrebbe capitare che ti lasci trascinare da un’ultima chiacchiera. Se indugi, sarai obbligato ad un altro bicchiere, e il rito ricomincerà. In casi estremi, se ti rendi conto che è proprio giunto il momento di andare, potrai appellarti alla expulsadeira: il pilota dell’aereo militare che precipita preme il pulsante di emergenza per poter essere ribaltato fuori dall’abitacolo. Il bancone di un bar della Rocinha è tutt’altro che un velivolo da guerra, ma l’expulsadeira ti salverà. Solo, stai all’erta che l’expulsadeira non si riveli un’engrenadeira, quella che ti fa ingranare verso un nuovo giro.

Come dopo la saideira di un anno e mezzo fa, quando tornai a casa dopo il primo giro di Rocinha, poche ore dopo essere nuovamente atterrato al punto di partenza, vivo le impressioni della diversità dei due mondi. Come la prima volta, anche se il traffico è intenso, nelle strade di Milano mi sento capitato nel mezzo di uno spazio sconfinato e deserto; le stanze di casa sono enormi (pur non vivendo in un palazzo regale). I pavimenti, come anche i marciapiedi, mi invitano a camminare scalzo; l’acqua calda che proviene dai diffusori della doccia e del lavandino è un bene prezioso, e il primo gesto dopo aver varcato la soglia di casa è lanciarmi a bere l’acqua che esce limpida dal rubinetto. Un elicottero sorvola il mitico quartiere Ponte Lambro e la prima reazione è uscire a controllare: si tratta dei pompieri, della Globo o della polizia militare? In questo periodo (per chi non l’avesse notato, periodo di Coppa del Mondo di calcio), potrebbe trattarsi dell’elicottero che scorta il pullman dei calciatori. Peraltro, non senza il supporto di un furgone dell’esercito e, a largo della spiaggia di Ipanema, di una nave da guerra, grigia, enorme: si intravede nella foschia tropicale come se giungesse da un sogno della seconda guerra mondiale. Ma, affacciandomi a questa finestra non si scorgono le abitazioni della favela Rocinha, né tanto meno le famose spiagge di Ipanema e di Copacabana, e l’elicottero non è un elemento del quale gli abitanti di qui debbano interessarsi con attenzione o timore.

L’acqua calda, l’acqua potabile, l’urbanizzazione e il traffico relativamente regolari, il gas che esce dai fornelli della cucina (e ti chiedi a seguito di quale magia)… vero, per mesi, la maggior parte delle cene sono state a base di riso, fagioli, carne, patatine fritte; di biscotti, di saponi e di detersivi, nei negozi e nei mercatini di favela, ce ne sono di una sola marca, mentre in qualsiasi supermercato di qui, anche di periferia, gli scaffali presentano distese di saponi e di biscotti diversi per forma, per colore e per prezzo. Ti pare di potertici tuffare, nella vastità di prodotti a tua disposizione. Ma, alla fine, dovrebbe trattarsi solo di questo?

Giunto sull’altra riva, ho condiviso per qualche mese la quotidianità degli abitanti di favela, ovvero di persone che hanno passato tutta la loro vita lavorando duro, subendo violenze e umiliazioni a non finire, tra un vicolo e una piazzetta, accontentandosi di una birra, della musica e delle feste per arrivare ad amare la vita. Ma nonostante abbia sfiorato stralci della quotidianità di favela, non sono mai stato uguale ai suoi abitanti; tanto per cominciare, perché ho sempre potuto valermi della mia libertà di scelta. Ma anche volendo ammettere solo per un attimo che per qualche mese io, il mio essere, ciò che ho provato, sia e siano stati vicini, simili, ad un abitante di favela e a ciò che egli è, e a ciò che egli prova, la valutazione della distanza tra due mondi remoti dovrebbe forse limitarsi alle impressioni legate all’istintivo confronto tra le diverse quotidianità? Se tornando qui, casa mia fosse meno comoda, se la polizia fosse meno gentile con me, se le mie risorse fossero più limitate; insomma, se su questa riva conducessi una vita di periferia come ho fatto sull’altra, non scorgerei forse meno differenze dal punto di vista pratico? Dunque, per capire meglio, forse bisogna sporgersi un poco di più dalla finestra.

Vado oltre, mi affaccio fino a restare con tutto il busto e le braccia fuori, senza timore di perdere l’equilibrio; e scorgo il volto di un giovane seduto all’angolo di un vicolo.

I lineamenti sono di un giovane uomo, lo sguardo distante di un vecchio che la vita ha già visto passare per intero; di un uomo consapevole che la vita potrebbe dover lasciare da un momento all’altro. Porta i pantaloncini, le havaianas e la canottiera. In fondo al braccio c’è la mano, e in fondo alla mano, appoggiata alla gamba magra, luccica il riflesso di un raggio di sole che è riuscito a varcare il vicolo stretto per cadere sul metallo argenteo di una pistola. Dietro all’angolo c’è un altro vicolo stretto e umido. Da un lato ci sono tre ragazzi, dall’altro altri tre o quattro, tutti seduti; chi su un gradino, chi per terra. Il primo porta a tracolla un fucile, gli altri mitraglie semi-automatiche, Uzi, 9 millimetri e altre pistole. Passi in mezzo a questa passerella, a pochi centimetri dalle armi. Smetti di fissare le armi; alzi la testa verso i volti. Ci sono volti assenti, altri ammiccanti, altri strafottenti. Ma i volti sono tutti distanti, impegnati nel lavoro, e non sarà il tuo insignificante passaggio a generare una distrazione che potrebbe costare loro la vita. Sono tutti giovanissimi, dai lineamenti di chi da poco tempo è stato adolescente, e sul loro volto scorre una vita lunga.

Non basta, non è solo questo. Mi affaccio ancora; e vedo una giovane donna magra, magrissima, distesa sul letto di una casa che trasuda per l’umidità. Una delle pareti dell’abitazione è di pietra: la roccia della collina; e vi sgorgano gocce d’acqua che si fanno rivoli che scivolano in una fessura del pavimento. Le altre pareti sono verdi di muffa. La giovane donna magra è stesa sul letto, magrissima, e sputa l’anima a colpi di tosse; i suoi occhi sono assenti. Sua figlia, una bimba di sei anni, Luiza, la fissa appoggiata su un angolo di quello stesso letto, e non sa che fare.

Ancora, non può essere solo questo. Mi sporgo di più fino a sentirmi sospeso in aria, e vedo un’altra bimba. La conosco, è Marianina, che ormai ha preso confidenza con me e tutte le volte che passo da scuolina mi saluta ridendo, mordendosi le labbra e incrociando le gambette esili, e mi dà sempre la stessa notizia, sempre con lo stesso entusiasmo: “là sopra, al piano di sopra, c’è Maria!!”. Maria è sua zia più piccola (la figlia di sua nonna, la sorellina di sua mamma), che poco tempo fa ha fatto il primo giorno di scuola da noi. Quel giorno sono passato per caso dalla scuolina ed ho trovato Maria in segreteria, a piangere di disperazione.

Maria è silenziosa ma esprime tutto con i suoi occhi grandi e scuri. Con Maria, due anni e mezzo, e con Marianina, sei anni, ho cercato di instaurare un rapporto, anche se non è facile: piccole così già imparano a utilizzare la paura per difendersi dai pericoli che potrebbe portare uno sconosciuto. Un giorno ho trovato un gioco: il loro gioco. Stavano sedute una di fianco all’altra sul gradino di cemento davanti a casa loro, come fanno spesso in attesa di novità. Dopo averle superate facendo finta di non prestare loro attenzione, mi sono voltato all’improvviso e ho fatto “ciao” con la mano. Mi hanno guardato con la bocca aperta e gli occhi sgranati. Sono tornato sulla mia strada, e dopo qualche secondo mi sono voltato di nuovo, ripetendo lo stesso gesto. Mi fissavano ancora. Alla terza volta, la più piccola, la zia Maria, si è sciolta in un sorriso e ha alzato piano la piccola mano, non sapendo che farne. Marianina continuava a fissarmi perplessa, mentre Maria prendeva coraggio fino a trovarne a sufficienza per imitare il mio gesto: “ciao ciao”. Ho proseguito verso la fine del vicolo. Voltandomi per l’ultima volta, quando ormai non potevo che scorgerle appena, le bimbe sono esplose in un tripudio di risate e saluti. Da quel giorno, abbiamo fatto questo gioco tutte le volte che ci siamo incrociati lungo la traversa della libertà.

Il primo giorno di scuola di Maria sono passato per caso da scuolina, e l’ho trovata in segreteria che piangeva di disperazione. Sapendo che la conoscevo, la tata mi ha chiesto la cortesia di portarla a casa. Quando mi sono avvicinato a Maria, lei ha allungato le braccia verso di me chiedendo soccorso. L’ho presa in braccio mentre gridava, e accompagnandola dai suoi genitori le sussurravo: “andrà meglio, migliorerà…”, fino a che non ha smesso di piangere e non ci siamo ritrovati davanti all’uscio di casa sua. Chiamavo sua mamma, che non sentiva. Maria se ne stava con la cartelletta in mano e gli occhioni sgranati verso la porta. Mentre aspettavamo un segnale di vita, è arrivata Jaqueline, la sorella maggiore di Maria. Jaqueline si è messa a urlare di gioia dal fondo della traversa della libertà: “Mariaaa!! foi pra escola?!“. Maria era stata sì, a scuola: era stato il suo primo giorno, ma non volle dare conferma alla sorella.

Qualche giorno dopo, passando da scuolina, Marianina si contorceva in sberleffi per salutarmi e per rivelarmi che di sopra c’era Maria. Di sopra, Maria sorrideva in mezzo agli altri bimbi, e, riconoscendomi, mi ha salutato agitando la manina.

Ecco che cosa c’è: c’è il volto spento di un giovane già adulto che forse non sarà mai adulto, c’è il volto di una mamma afflitta dall’alcol e dalla tubercolosi, e c’è il sorriso di una bimba. Che cosa sta facendo oggi questa bimba? Qualcuno oggi ha forse sparato a quel giovane? Quanto resisterà, quella mamma, all’alcol e alla tubercolosi? Quando la bimba crescerà e sarà adolescente, farà forse crescere in grembo un altro bimbo e un’altra bimba, per ricominciare tutto da capo? Qualche altra giovane si starà salvando dall’Aids e dalle malattie che portano i topi, dalla carenza di alimentazione regolare e dalla carenza di educazione?

Di certo oggi Maria e Marianina stanno sorridendo. Un altro paio di bimbi si stanno mettendo a tavola, portando una alla volta le loro gambette sulla sedia più alta di loro, appoggiando i gomiti al tavolo, ridendo, entusiasti di poter condividere il riso e fagioli con il loro giovane padre, e di poter ascoltare che cosa ha da raccontare loro.

Ecco che cosa c’è: c’è il volto spento di un giovane e quello vivo di felicità di un bimbo.

Forse sulla mia riva ci sono altre periferie, altre favelas, altre emarginazioni, altri volti. Ma io, di ritorno qui, per un attimo, sono tornato a vivere me stesso, la mia lavatrice, la mia televisione, il mio bucato steso, la mia acqua calda, la mia doccia. Il mondo remoto di là torna ad essere quello che ci viene insegnato dai mass-media, con le loro falsità, con le loro orrende bufale. Io torno io, torno al centro del mio mondo e della mia vita. Tempo fa, desideravo che la mia vita mi assomigliasse di più. Giunto su un’altra riva, ho scoperto che a che cosa assomigli la mia vita non è poi la questione fondamentale. In un mondo remoto ho vissuto con gli altri, insieme agli altri, dando con il mio lavoro e lasciando che il popolo di periferia, il popolo emarginato, mi insegnasse ogni giorno l’amore per la vita. Così, tornando indietro con la mente, oggi non ha importanza che cosa e dove io sia; oggi, ovunque ti trovi, c’è la consapevolezza acquisita di essere parte di questo unico mondo afflitto e impreziosito da sanguinose e meravigliose contraddizioni.

È l’alba e apro per primo l’oblò dell’aereo che mi sta portando indietro. In basso c’è una distesa uniforme di grigio scuro, che potrebbe essere il mare oppure una successione regolare di nuvole. Il grigio finisce alla linea dell’orizzonte, che ha la forma leggermente curvilinea, tanto che mi pare di trovarmi sospeso sopra al mondo. Appena sopra alla linea grigia, una striscia di rosso scuro e vivo. Risalendo in verticale, il rosso cede gradualmente a tutti i colori dell’arcobaleno: arancione, giallo, verde chiaro, e poi tutte le sfumature dell’azzurro, fino al blu, che diventa blu scuro avvicinandosi alla notte. A mano a mano che procediamo verso est, sulla sinistra il rosso pervade la distesa di grigio. Avanzando ancora, giunge il sole ad annullare i colori e a dominare incontrastato il cielo di una nuova giornata. Il sole mi lascia intravedere quello che c’è sotto: una striscia di terra imponente, che poco dopo cede il passo al mare: una striscia di mare sovrastata da una foschia misteriosa, e poi ancora terra. Ora si vedono contemporaneamente la terra, il mare e di nuovo la terra: l’Africa, lo stretto di Gibilterra e l’Europa.

Chissà che questa saideira, o expulsadeira che sia, chissà che non si riveli una engrenadeira; non un traguardo, non la fine della serata, ma l’inizio del vivere con gli altri, del prendersi cura di se stessi in quanto parte degli altri, del vivere pensando di essere appena e non meno di una parte di tutto il mondo.

Il meglio che possiamo fare per aiutare questa gente della quale facciamo parte è andare là, oppure restare qua, ad imparare qualcosa da loro, e quindi, da noi stessi.

 

Grazie infinite a:

Carol e Caio Enrique,

Victor Hugo e Christianino,

Barbara, Barbara e Julio,

Veronica, Helena e Juliana,

Ana Clara, Marta, Raissa, Jo, Deize, Juma, Jane, Danielle,

Wellington, Wallace, Otavio, Maria Eduarda,

Bismarck, Luiza, Pedrino, Johanna, Kathleena,

Camile, Renan, Gullherme Sousa, Dadì,

Junino e Davide, Michel e Diego, Branco e Preto, Barbarina, Flavinho,

Vanderlan, Bia e Jessica, Lucas, Toca, Roger,

Joni, Jonatan, Maria Antonia, Juju, Joana, Jaqueline, Jessyane,

Marianina, Nicole e Caterina, Gabriel, João Luiz,

João, José, Jesus, Mané, Tião, Lelé, Xangô e Bené.

Il Sorriso dei miei Bimbi Onlus.

Inviti:

Questo racconto rappresenta la chiusura del primo capitolo (non posso che considerare questa esperienza solo l’inizio). La Finestra sulla favela è tornata a casa: in Italia, al quartiere Ponte Lambro di Milano. Se qualche cortese lettore si fosse affezionato alla Rocinha e a ai suoi abitanti, ne sentirà la mancanza come ne sentirà la mancanza la Finestra; ma le lancette dell’orologio hanno fatto molti giri. L’invito, per chi ne ha la possibilità, resta di andare a visitare la favela Rocinha, i suoi abitanti e i progetti de Il Sorriso dei miei Bimbi.

Per chi si trovasse a passare a Milano, l’invito è venire a trovare me e altri amici della favela Rocinha: ecco un invito aperto a tutti per giovedì 19 giugno: a questo link tutti i dettagli per raggiungerci.

Ultimo ma non ultimo: restare affacciati alla Finestra sulla favela: entro fine mese, in occasione del suo secondo compleanno, ci sarà un regalo dedicato ai lettori affezionati. Dopo, la Finestra continuerà ad affacciarsi su altri luoghi, di emarginazione e di grande umanità, siano essi remoti, o vicini a casa: come e quando lo si scoprirà restando affacciati alla Finestra.

Foto ricordo:

  1. E’ UNA LETTURA CHE METTE A NUDO SE’ STESSI, LA PROPRIA ANIMA, IL PROPRIO RELAZIONARSI CON GLI ALTRI, CHIUNQUE ESSI SIANO…….UNA LETTURA CHE SVELA LA NOSTRA NATURA NEI CONFRONTI DEL RESTO DEL MONDO E CI RIVELA E CI INSEGNA, IN MODO DIRETTO, REALE E TANGIBILE, A CAPIRE LA VITA, AD AMARLA E A DARLE IL VALORE CHE MERITA ATTRAVERSO LA SOFFERENZA E LA GIOIA ALTRUI…… UN VERO LIBRO DELL’ANIMA…

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  2. La Saidera mi era piaciuta. La expulsasaidera mi è piaciuta ancora di più. Bentornato di nuovo Marco. O forse quelli come noi, i cittadini del mondo, non partono e non arrivano, ma girano e basta. E allora semplicemente un abbraccio. In attesa del regalo 🙂

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  3. […] Pedrino? Un libretto con le foto di te e degli altri bimbi della piazzetta, prima del tempo della expulsadeira, tu e i tuoi amichetti l’avete ricevuto. Non so neanche che espressione tu abbia avuto sul volto, […]

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  4. […] racconto per la terza volta. Per chi lo desideri, ecco le altre due ultima volte: la saidera e  l’expulsaidera. Si conclude così (per il momento) la Finestra sulla Sierra Leone, una storia cominciata così: […]

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  5. […] Mi vedo già sull’aereo. Alzerò gli oscuranti del finestrino e scorgerò colori meravigliosi. Ancora una volta sarà lo stretto di Gibilterra: una striscia di terra chiamata Europa e una striscia di terra […]

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