un impiegato in favela

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L’altro

In Finestra sul Ponte Lambro on 1 gennaio 2021 at 16:46

Finestra sul Ponte Lambro, di Un impiegato in favela

Per formulare gli auguri di un buon 2021 da questa finestra, devo innanzitutto condividere questo testo tratto da Balkan express, di Slavenka Drakulić:

“Ma forse la migliore spiegazione del perché la gente non ha fermato il massacro è quella data da un contadino polacco che vive ancora oggi a Treblinka. Rispondendo alla domanda se loro, i polacchi, avessero avuto paura per gli ebrei, ha risposto che se si tagliava un dito faceva male a lui, non a qualcun altro. Sì, sapevano degli ebrei, dei convogli, del fatto che andavano nei campi e sparivano. I polacchi lavoravano la loro terra a un passo dal filo spinato e sentivano urla terrificanti. “All’inizio, veramente non si poteva sopportarlo. Ma dopo ci si abitua”, ha detto un altro contadino, un polacco. Si trattava di ebrei, di altri, non di noi. Cosa aveva un polacco a che fare col fatto che i tedeschi stavano ammazzando gli ebrei?

Tutti ci siamo abituati. Capisco ora che questa “diversità” ha ucciso gli ebrei. Prima è stato necessario etichettarli, ridurli alla dimensione di “altri”. Dopo, tutto è diventato possibile, anche le peggiori atrocità come i campi di concentramento o il massacro dei civili in Croazia o in Bosnia. Come allora per i tedeschi, così oggi per i servi, tutti quelli che non ci appartengono sono “altri”. Per me, questi altri sono i profughi. Per gli europei, gli “altri” sono i “selvaggi balcanici” che non vogliono capire. Per gli Stati Uniti si tratta più o meno di un “problema europeo”, perché dovrebbero preoccuparsi delle grida di migliaia di persone che muoiono sotto le bombe o semplicemente di fame, quando quelle grida si sentono appena? Che sia l’Europa a fare qualcosa, non stanno forse coltivando il loro campo a un passo dal filo spinato? Non credo che tutti abbiano la stessa responsabilità, e non sto cercando di mettere sullo stesso piano le vittime e quelli che le hanno assassinate a sangue freddo. Voglio solo dire che una nostra responsabilità esiste, che per opportunismo e per paura noi tutti diventiamo, in un modo o nell’altro, collaborazionisti o complici nella perpetuazione della guerra. Perché se chiudiamo gli occhi, se continuiamo a fare la nostra spesa, a lavorare il nostro orto, a fingere che non succede niente, a pensare che non è un nostro problema, noi tradiamo questi “altri”. Non so se c’è una via d’uscita. Quello che non vogliamo sapere è che, con questa separazione, inganniamo anche noi stessi, esponendoci alla possibilità di diventare, in un contesto diverso, gli “altri”.”

Il mio migliore augurio per il 2021, che rivolgo innanzitutto a me stesso, è che nel corso dell’anno appena iniziato impariamo a non avere paura dell’altro e che l’altro non debba avere paura di noi. Anzi, meglio ancora sarebbe che potessimo superare la necessità di identificare l’altro come altro, riconoscendo che tutti apparteniamo a un unico noi universale, una sola grande umanità.

A questo proposito, ri-pubblico qui sotto il racconto “Un messaggio” di Finestra sulla favela, rispetto al post precedente riscritto solo un po’.

Buon anno! Marco, Un impiegato in favela

Un messaggio

I riflessi della luna pulsano sulle creste delle onde, si lasciano avvolgere nel loro ventre, tornano a respirare, poi si fondono con la loro schiuma effervescente tra i sassi levigati. È gentile, questo mare. Al suo cospetto, anch’io, come questi uomini, con le braccia tese, offro il mio smart-phone alla luna; proprio quello stesso cellulare che quattro mesi fa mi fu affidato dal capo della comunità perché ero forte e giovane: ventidue anni. Le scariche di mitraglia avevano fatto irruzione nel villaggio. Le scorte erano state saccheggiate, le bambine rapite. Anche mia figlia e la mia sposa erano state trascinate nella boscaglia verso il grande lago.

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Passeggiando sulla luna

In Finestra sulla Nigeria (del nord) on 30 Maggio 2016 at 13:30

Da Finestra sulla Nigeria (del nord), di Un impiegato in favela

passeggiando sulla luna

C’era vento, eravamo investiti dalla sabbia, ci sentivamo ribaltati in un altro mondo, un mondo diverso dal nostro; con la stagione delle piogge che si avvicinava, tempeste di sabbia, sole opaco, cielo vago. Si intravedeva, laggiù, nel mezzo di quella distesa irregolare e infinita di sabbia rossa qua e là interrotta dai disegni bizzarri dei baobab, dalle chiome a ombrello degli alberi di mango, dai profili longilinei delle palme e dalle dita e dalle unghie che gli alberi di caju distendevano verso l’alto come a voler grattare il cielo e che finivano per proiettare all’orizzonte figure orientali, laggiù si intravedeva un aratro di ferro arrugginito trascinato da due bovini dalle lunghe corna che parevano voler assomigliare ai rami dei baobab; più in là, un giovane uomo con due bambini tutti insieme intenti a sovrastare e spintonare un mulo per convincerlo a smuoversi; poi tre uomini dalla lunga tunica che, con la schiena piegata, lavoravano la terra, l’accarezzavano, l’incoraggiavano, la pregavano di essere clemente con loro e con la loro comunità, che aspettava l’esito del loro lavoro nel recinto di paglia di un villaggio di sabbia, dove una combriccola di bimbi accucciati e silenziosi si era riunita protetta da un tetto di rami ad ascoltare qualcuno che raccontava loro qualcosa; ancora, a margine della strada, si vedeva un uomo accovacciarsi e raccogliere al grembo la tunica per cagare; poco distante, si vedevano chiaramente tre giovani che si ritrovavano sotto l’ombra della chioma di un albero a discutere una questione importante, mentre, tra i rigonfiamenti delle radici e della terra, si scorgevano appena due bimbi che viaggiavano nel nulla con un fascio di rami e ramoscelli in equilibrio sul capo. Laggiù si intravedeva anche un uomo che, divincolandosi dalle moto, portava la bicicletta, come tanti fanno a Potiskum (dove però i tanti sono solo uomini, o al limite qualche bambina, perché alle donne è vietato); e poi un bimbo piccolo a torso nudo, dal pancino e il viso rotondi come bolle di sapone scure, che portava avanti una sua battaglia personale e lentissima contro una zolla di terra. Laggiù, ancora, ecco una donna che, solitaria e testarda, mentre procedeva nel nulla lungo un sentiero il cui tracciato solo lei poteva decifrare, sfidava la tempesta che pareva volerle strappare via il lungo velo viola.

La sabbia si era levata in ogni angolo di cielo e ci circondava; dalla corsia opposta della Transahelian Airway giungeva un carico di bestiame e di uomini che scivolava via per dare il cambio ad un’autocisterna di carburante che sulla cima del silos si portava un carico aggiuntivo di carbone; incrociavamo un furgoncino dallo sportello posteriore del quale spuntavano una decina di piedi sospesi a pochi metri dall’asfalto; verso sud ancora sabbia, per terra e in cielo, ma ecco che, prima di avvicinarci a un centro urbano molto grande, ci sorprendeva uno specchio d’acqua in mezzo al quale appena si distingueva il busto nudo di un uomo mimetizzato tra fusti di piante di riso.

Alle porte di Kano

Stiamo per imboccare le porte della città ma un insolito posto di blocco ci obbliga alla fermata: Leggi il seguito di questo post »

Finestra su Lampedusa – Miei cari amici europei

In Altre finestre on 4 marzo 2016 at 16:10

Un’amica cooperante ci consente di aprire un’estemporanea finestra su Lampedusa, per capire meglio che cosa avviene nel corso di un lungo viaggio di un – come lo vogliamo chiamare? – migrante, rifugiato, profugo, verso la nostra Europa. Con una denuncia inquietante.

Il racconto è di Alice Anzivino, con una lunga esperienza di accoglienza a Lampedusa, la storia è di Ndama, pseudonimo di un giovane che conduce una vita reale e che di recente ha fatto esperienza di un sbarco reale e che ci racconta di un altro sbarco mai avvenuto. I disegni a corredo del racconto sono di Francesco Piobbichi. La Finestra riprende la prima pubblicazione di Mediterranean Hope.

“Miei cari amici europei”
La storia di Ndama.

Mediterranean Hope - disegni di Francesco Piobbichi  ripresi da Finestra su Lampedusa

Ndama è un ragazzo senegalese di 22 anni. Bussa alla porta del nostro ufficio di Lampedusa per poter utilizzare internet per contattare la famiglia, gli amici. Ma come per molti altri ragazzi, attraversate le frontiere, i suoi account vengono bloccati, chiudendo l’unica finestra di casa rimasta.
Utilizza il suo tempo per cercare informazioni riguardo ad un naufragio avvenuto poche settimane prima, dove il suo amico è sopravvissuto insieme a poche altre persone e ci domanda se noi sappiamo qualcosa a riguardo.
Torna a trovarci il giorno dopo, con una lettera indirizzata a tutti noi: “Miei cari amici europei”.
Così ci racconta una storia, “la storia vera, reale” sottolinea, la storia che lo riguarda e che riguarda molte persone che come lui stanno affrontando viaggi estenuanti, inseguendo la vita, quando le uniche due scelte che vedono sono o morire o l’Europa.
Con lucidità e consapevolezza, con la sua lettera in mano, a voce alta, seduti sul muretto di un piccolo parco giochi di Lampedusa, inizia il suo racconto.
“Miei cari amici europei”. Il suo viaggio lo vede partire da Agadez in Niger, Leggi il seguito di questo post »