Finestra sul Ponte Lambro, di Un impiegato in favela
Finestra sulla favela è stata aperta per la prima volta il 4 luglio 2012, è una bimba grande ormai! In otto anni e più di quattrocentotrenta racconti, raccontini e post ci siamo affacciati alla favela, quella vera, la Rocinha di Rio de Janeiro e poi, perché favela è ogni luogo di bellezza e di grande umanità trascurata ed emarginata, anche sulla Sierra Leone ai tempi dell’ebola, sulla Sierra Leone del post-epidemia e sulla Sierra Leone sull’area rurale; poi sulla Nigeria (del nord-est); su di me in Medio Oriente, con Finestra MEMO; su Longacres, la favela dello Zambia; e in questi ultimi due mesi su Haiti. Ci sono favelas ovunque, anche dietro l’angolo, per questo anche ci siamo affacciati sul Ponte Lambro.
In occasione del compleanno di Finestra sulla favela, ti propongo il racconto breve Un messaggio. In coda al racconto, sempre come regalo di compleanno, puoi trovare un consiglio per la visione: un film molto importante ad opera di un sierraleonese. In particolare, se sei tra quelli che tengono alla vita di chi ha la pelle nera, penso non ti pentirai di aver dedicato quaranta minuti a questo documentario.
Lo so, non si festeggiano i compleanni in anticipo, ma sto sempre affacciata alla finestra e domani (4 luglio) è sabato, mi fai gli auguri lo stesso?
Anche se non me li vuoi fare, grazie lo stesso, grazie davvero per esserti affacciata o affacciato così a lungo! E buona lettura, buona visione.
Marco, Un impiegato in favela
Un messaggio
I riflessi della luna pulsano sulle onde, scortati dalle loro creste, avvolti nel loro ventre, fino a confondersi con la schiuma effervescente tra i sassi levigati. È gentile, questo mare. Al suo cospetto, anch’io, come questi uomini, con le braccia tese, rivolgo alla luna il cellulare.
Quattro mesi fa, mi fu affidato dal capo della comunità perché ero forte e giovane: ventidue anni. Le scariche di mitraglia avevano fatto irruzione nel villaggio. Le scorte erano state saccheggiate, le bambine rapite. Anche mia figlia e la mia sposa: trascinate nella boscaglia verso il grande lago. Il villaggio era caduto in grave crisi. Il capo si prese in custodia l’altro figlio mio, Baba, e mi mandò via con questo telefono, una busta di soldi e un po’ di carne secca. Lasciai le case di fango e paglia tra le quali sono cresciuto, una striscia di terra e nove vacche dalle costole scolpite da far pascolare nella stagione delle piogge, quando la vegetazione si insinua nella sabbia e rinverdisce il groviglio di rami sottili che il tronco massiccio del baobab porge al cielo.
Qualche banconota mi portò alla capitale. Presi un autobus per l’ultima città prima del deserto. Vi trovai una folla di commercianti, trafficanti, gente come me, che voleva partire, e gente che non ce l’aveva fatta, che vagava con occhi spenti nell’attesa di riprovare.
Mi strinsi ad una cinquantina uomini sul cassone di un camion. Attorno a noi, i mercati e le case si diradarono e non rimase altro che sabbia. Il sole ci schiacciava. Di fianco a me, un uomo dagli zigomi aguzzi giunto da est si accasciò, i suoi occhi si spensero, il suo corpo fu spinto fuori. Lo vidi affossarsi nella sabbia. Il camion non si fermò fino ad una piantagione di palme. Ci fecero scendere a bastonate e ci costrinsero a bere acqua verde per farci buttar fuori quello che ci eravamo nascosti nell’intestino. Mi ci ero infilato solo i soldi, il cellulare ce l’avrei messo dopo (l’avevo cucito nel telo che portavo in testa). Ci costrinsero a raccogliere datteri per acqua pulita, riso e sigarette. Alcuni scomparvero. Dopo un mese, mi sbatterono in faccia due dollari e mi gridarono: sparisci! Diedi i soldi ad uomo armato che promise a me e ad altri di portarci sulla costa. Viaggiai sdraiato nel doppiofondo di un tir. C’era anche un bambino che assomigliava a Baba. Ci scaricò in un cantiere abbandonato vicino al porto dove la polizia ci stava aspettando. Ci scatenarono addosso i cani e ci trascinarono in carcere. Per due mesi mi tennero legato, fecero male al mio corpo. Ma il mio cellulare non lo trovarono. Poi ci fu un bombardamento. Il tetto e le pareti schiacciarono molte persone, le guardie scapparono, riuscii a liberarmi e fuggii. Al porto incontrai degli uomini con un gommone e del carburante. Lavorai per i miliziani per imbarcarmi.
Salpammo durante una tempesta per raggirare la guardia costiera: ci avrebbero sparato. Le onde erano più alte di noi. Dovemmo gettare due corpi in acqua. Non riuscivamo a stare in piedi. La morte aveva afferrato il timone. Poi avvistammo un lumino. Era la boa che galleggia qui davanti, sul mare calmo. Una donna si tuffò ma la boa era distante e fu inghiottita dal mare. Ci lasciammo trascinare dalle onde, scortati dalle loro creste, avvolti nel loro ventre, fino a dove si fecero schiuma.
Qualcuno ci ha accolti e ci ha dato da mangiare. A gesti abbiamo chiesto un posto dove prendesse il cellulare. Offro questo amuleto alla luna, ti cerco, segnale. Devi accompagnare queste parole: “Baba, sto bene. Il mare è stato scortese, ma sono arrivato.”
Nota e consigli per la visione
La fotografia in copertina, alla quale si è ispirato questo racconto, ha vinto il World Press Photo Award del 2014 ed è stata scattata su una costa del Gibuti da John Stanmeyer, che ha dichiarato: «Io sono quell’uomo col cellulare alzato nella notte, in cerca di un segnale per parlare con la sua casa. Tutti siamo quell’uomo, perché tutti prima o poi siamo migrati, nella storia delle nostre famiglie sulla Terra. La mia speranza è che queste immagini ci aiutino a capirlo, e quindi anche ad affrontare alle radici i problemi da cui nasce il fenomeno dell’emigrazione di massa» (La Stampa)
Per capire ancora meglio, vi suggerisco di guardare il documentario “Exodus from Africa, di Sorious Samura”, eccolo qui sotto.
Dal 4 luglio 2012, Per più di 115.000 volte qualcuno si è affacciato alla Finestra sulla favela, per più di 115.000 volte la favela ha sorvolato i muri che la stringono ed ha viaggiato in più di 150 paesi del mondo.