Da Finestra su Longacres, Di A.
L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti.
[Hannah Arendt, Tra passato e futuro]
Cammino fiera per strada pensando ai mesi trascorsi in un angolo di mondo che si è mostrato in tutta la sua sfacciata onestà. Insieme a me il piccolo Elijah, figlio di Chichi e fratello di Womba, che mi tiene la mano e dice che verrà a trovarmi, che anche lui vuole vivere in un posto in cui è obbligato ad andare a scuola. Gli sorrido e penso che raramente mi sono trovata davanti un bambino così intraprendente, fin troppo temerario, e che meriterebbe le stesse possibilità che ho avuto io all’età di sette anni. So che non potrà avercele perché la legge del caos ha voluto che le mie viscere prendessero forma in Europa mentre la stessa combinazione australe ha fatto sì che le sue si materializzassero nel sud dell’Africa. Il caso ha deciso che io nascessi con i cromosomi XX, di razza caucasica nella culla della civiltà bagnata dal Mediterraneo e sempre il caso ha deciso che Elijah nascesse con i cromosomi XY, di razza africana in un piccolo compound di Lusaka tra la fame e l’ingegno applicato all’autoconservazione. Mi fa tenerezza guardarlo mentre impugna la matita per disegnare un cuoricino sulla destinazione del nostro viaggio insieme, non sa cosa c’è scritto, ma sa che è là che passeremo gli ultimi giorni di esistenza condivisa. La sua bocca si è stretta nelle labbra assottigliate da un’espressione imbronciata, c’è qualcosa che non capisce: perché io posso venire a Lusaka quando voglio e lui non può trasferirsi a Milano dove si mangia sempre la pizza? Gli spiego che la pizza si mangia sempre a Napoli, ma che in effetti anche a Milano non c’è un regolamento che lo vieti. Della deprimente vicenda dei carboidrati gli dirò un’altra volta sperando di esser smentita dalla scienza nel frattempo, oggi mi tocca già raccontargli dei confini e delle leggi sull’immigrazione. Dopo venti minuti di spiegazioni su visti di lavoro e permessi di soggiorno, la sua manina si avvicina alla mia fronte, bussa alla mia testa e mi domanda:
– “E perché? Perché servono tutti questi documenti? Non puoi spiegar loro che vivere a Bauleni è molto difficile?”.
Non è lui ad essere confuso, la sua questione è lineare, ma non ho spiegazioni che possano soddisfare i perché legittimi che continuerà ad oppormi. Il viaggio in pullman si fa ancora più difficile quando lo vedo cercare sulla mappa lo stato a forma di stivale, ma quella è una cartina geografica dell’Africa ed è a quel punto che arriva la richiesta che più temo.
– “Bwana [capo in lingua nyanja], ma come si arriva in Italia? Se io cammino per tutta l’Africa arrivo da te?”
Ci penso qualche istante prima di rispondere, ho timore di ferirlo, ma poi decido di essere onesta: è un bambino sveglio, è sopravvissuto al colera, alla miseria e all’allontanamento della madre, affronterà anche questo. Avvicino lo schermo del telefono al suo visino, gli mostro la rotta della migrazione dal Sahel nel Niger fino alla costa della Sicilia; gli racconto del reato di immigrazione clandestina che troverà in ognuno dei sei stati che in linea d’aria dividono lo Zambia dall’Italia; gli dico che in Libia i migranti finiscono in stato di detention o captivity all’interno di prigioni per migranti, del business del traffico di esseri umani e dei trattamenti inumani e degradanti registrati dalle agenzie delle Nazioni Unite; già che ci sono ne approfitto per spiegargli cosa sono le Nazioni Unite. Mi ascolta in silenzio, lo sguardo si fa plumbeo come se fosse vittima di una grande ingiustizia. Ed io lo so che è drammaticamente iniquo, che le sofferenze imposte ai disperati sono arbitrarie e contrarie alla morale e troppo spesso persino al diritto. La sua espressione cambia di nuovo improvvisamente quando ci fermiamo per permettere a una famiglia di babbuini di disposti in ordine di gerarchia e di altezza di attraversare la strada.
– “Lo sai che da me non ci sono i babbuini? E nemmeno gli elefanti, i leoni, i rinoceronti, gli ippopotami, le zebre, le gazzelle, gli impala, i leopardi, i black mamba, i coccodrilli e le giraffe.”
– “Prrrr! E che animali ci sono da te?”
– “Le galline, ma ce le avete anche voi; le mucche, ma ce le avete anche voi, infatti guarda fuori dal finestrino c’è una vacca nel campo; le pecore, ma anche queste ce le avete; ahhh, ci sono i pesci nel mare! Il mare in Zambia non c’è, però avete lo Zambezi ed i laghi Tanganica e Kariba.”
Gli mostro tonni, pesci spada, meduse, polipi, granchi e sardine. Non sembra particolarmente impressionato, tranne che per il polipo ed i suoi tentacoli: i maschi riescono sempre a riconoscersi nei propri simili. Arriviamo a Livingstone, scendiamo di fretta per andare al Mosi oa Tunya, saltiamo con lo zaino su una jeep e ci godiamo ognuno dei piccoli animali che incontriamo. Gli uccelli hanno tutti un’espressione di nonchalance che è quasi divertente. Poi sbucano da dietro gli arbusti alti alti due giraffe, più in là si scorge un elefante maschio, ed Elijah che non ha mai visto nessuno dei big five si illumina e ride a crepapelle. Io lo seguo. Arriva velocemente l’ora di dirigersi verso la destinazione principale, più ci avviciniamo e più i miei capelli diventano umidi e crespi, ma alla prima curva me ne dimentico. Eccole davanti a noi, ecco le cascate Vittoria in tutta la loro magnificenza. Elijah è finalmente protagonista del suo mondo.
MONOLOGO NUMERO OTTO
Tu che mi leggi, parlo con te, sono A. Ogni volta che ti preoccupi degli immigrati cattivi; quando ti auguri che affoghino; quando dici che la Libia è un porto sicuro; quando dai il bacio della buonanotte al tuo bambino; quando ti rechi alle urne, pensa ad Elijah. Né io e né lui abbiamo provato la guerra civile e neppure le persecuzioni nella democratica Zambia. Ciò che ho visto è stato però sufficiente a convincermi che sono stata fortunata a nascere in Europa, che non avrei sopportato un solo giorno all’interno del compound con il colera o nelle prigioni senza acqua, che ognuno dei bei visi che ho avuto il privilegio di incrociare in questi angoli dimenticati da Dio avrebbe meritato di essere il mio vicino di casa. Aiutiamoli a casa loro o a casa nostra, ma aiutiamoli sul serio.
Elijah e gli altri bambini dello slum di Bauleni non si sono mai allontanati dal compound. Il prossimo mese In & Out of the Ghetto, la NGO che garantisce loro un’istruzione di base, accompagnerà i piccoli del quartiere a Livingstone a visitare il parco Mosi oa Tunya e le Cascate Vittoria. Aiutaci a realizzare il loro sogno, contribuisci con una piccola donazione e sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.