Quel giorno sono nata, quel giorno di quattro anni fa. Non è che siano tanti, quattro anni, ma qua e là qualcosa ho visto lo stesso. Il mio viaggio si avviò prendendo coraggio e uscendo da pareti diroccate e grigie di muffa. Fuori trovai ad aspettarmi un camioncino sgangherato che i grandi che passarono a prendermi fecero partire a spinta, ed è così che, a colpi di tosse e borbottii, il camioncino si mise in moto.
Percorremmo un tornante che risaliva una collina e si faceva sempre più stretto fino a contorcersi su se stesso aggrovigliandosi in vicoli stretti e scoscesi lungo i quali scorsi una scorribanda di bimbi in ciabattine e pantaloncini che vi si precipitava alla ricerca di un açaí o di qualche scherzetto. Dietro a loro, nell’ombra, stava seduto calmo un bimbo più grande; con lo sguardo lontano accarezzava un mitra sul quale si rifletteva l’unico raggio di luce che filtrava attraverso alte pareti pericolanti e umide. Una goccia di condensa batteva sul cemento gettato alla meglio nello stesso punto sul quale poco prima aveva zompettato un ratto per tuffarsi in un torrente che, puro alla foce sulla cima della collina, si imputridiva per i liquami provenienti dagli scarichi delle scomposte abitazioni che si sovrapponevano l’una all’altra prima di cedere al cielo enorme e blu in alto e alla foresta fitta e scura di fianco. Ai confini della favela c’era una strada a percorrenza veloce. Oltre la strada nessuno ne vuole sapere niente di quello che capitava da questa parte. Per quanto mi riguarda, dopo quattro anni, ho ancora nelle narici il solletico del fumo del churrasquino e nei timpani le vibrazioni a ritmo di pagode e funky, caralho!, um tcha… um tcha tcha.
Poi, un mattino in volo, alzando l’oscurante, il cielo si rivelò di fuoco e parve voler incendiare l’oceano tutto, ma presto prese a calmarsi mentre l’oceano nemmeno accennò a scomporsi. Una striscia di terra si fece nitida sotto alle ali che mi accompagnavano e mi confidò che presto avrei vissuto proprio da quelle parti.
Lavati le mani, questa fu l’azione ricorrente che vidi realizzarsi ogni volta che mi affacciai. No no, non pensarci neanche, senza commenti, lavati le mani e basta, dicevano tutti. Lentamente apri la cerniera, tieni il bavero distante dal collo, sfila la tuta, esci. Ah, certo, e lavati le mani. Vidi Suliman Kamara: aveva il viso lucido di un bambolotto e la camiciola con le barchette. Vidi una tuta arancione accompagnarlo con i guanti verso il suo ultimo viaggio. Poi furono valanghe di riso per chi intanto era stato abbandonato, per chi non poteva andare a scuola, per chi di notte era stata travolta da un branco di uomini dagli occhi sbarrati e furibondi, per chi non aveva un tetto sotto al quale riposare e giocare, per chi voleva giocare e ridere almeno per qualche minuto prima di tornare al lavoro.
Domani quattro luglio faccio quattro anni, vivo poco distante da quel luogo del lavati le mani, manca un mese e due giorni al ritorno e il conto alla rovescia si fa incoraggiante, anche se rimane la sensazione che tanto tempo ancora, e intenso, debba trascorrere. Intanto al sud del Paese rapiscono, al nord sparano e le forze armate ufficiali tagliano i collegamenti per far morire di fame l’esercito avversario, ma intanto lascia che muoiano di fame anche tutti gli altri che sono capitati a nascere lì in mezzo, da qualche parte nel Sahel, ai margini del lago Chad. Dopo quattro anni di vita, oggi, se ti affacci alla Finestra sulla favela vedi allacciato al braccio di un bimbo un misurino che dice rosso, che vuol dire che quel bambino deve mangiare. Ma il suo fratello più grande ti guarda con gli occhi di meraviglia perché non aveva mai visto prima un volto dalla pelle così chiara e le mani chiare tanto che gli si intravedono le vene. Scorre il sangue e dopo quattro anni di me, dopo quattro anni di Finestra, se gli tiri un buffetto, nonostante tutto, il volto di quel bimbo esplode in una risata che è identica a quella di quegli altri in ciabattine che ancora adesso si precipitano lungo vicoli che si ramificano scoscesi sul dorso di una collina abbandonata. Dopo quattro anni tocca anche mandare un abbraccio ad Antonio che ha scattato la foto della Finestra sulla favela e con il quale Finestra sulla favela è diventato un libro digitale (che trovi qui se ti va di leggerlo e guardarlo). Il quattro luglio è il compleanno della Finestra sulla favela: il quattro luglio di quattro anni fa per la prima volta qualcuno vi si è affacciato e da allora più di trecentocinquanta voci hanno raccontato altrettante storie per sorvolare un muro di emarginazione e di pregiudizio e viaggiare lontano, dove finisce il mare e l’acqua si riversa in un’enorme misteriosa cascata. Da allora, per più di ottantamila volte ti sei affacciata (o affacciato) alla Finestra sulla favela, contribuendo così a trovare un collegamento con un mondo prima lontano e sconosciuto e maltrattato e male interpretato, lasciandoti andare a far parte un poco di più di un’unica grande umanità, dell’unico mondo di cui tutti facciamo parte, che appartiene anche e non solo a ciascuno di noi. Me li fai, il quattro luglio, gli auguri di compleanno? Ma sì dai, vanno bene anche in anticipo nel caso.
Per festeggiare, ecco dieci racconti da questi quattro anni che mi passano per la testa in questo momento, e, se fai click sulla galleria fotografica sotto, ecco dieci immagini che mi scorrono davanti.
- luglio 2012 in Brasile: Nei volti dei bimbi speranze e disillusioni
- ottobre 2013 in Brasile: Dia da crianças visto dall’alto
- ottobre 2014 in Brasile: Colpi d’arma da fuoco di lunedì mattina
- giugno 2014 in Brasile: La signora Antonia
- dicembre 2014 in Sierra Leone: Lavati le mani
- gennaio 2015 in Sierra Leone: Suliman Kamara
- agosto 2015 in Sierra Leone: Solo al paradiso
- ottobre 2015 in Sierra Leone: Da quando questo è il mio mondo
- gennaio 2016 tra Milano e Brasile: La combriccola (ad Antonio Spirito)
- maggio 2016 in Nigera: I pastori del sole parte I e parte II
Abre a janela na favela!