Da Finestra sulla Nigeria (del nord), di Un impiegato in favela
…a nord-est, dicevo… ma prima di tornare a nord-est, se posso, mi soffermerò ancora un attimo su Abuja. Qui ad Abuja faccio parte di una comunità che non è solo di cooperanti: ci sono le ambasciate e le aziende e si organizzano molte feste. La possibilità di distrarsi dal lavoro c’è. Certo, non c’è il tramonto sul mare di Freetown, be’, anche perché qui non c’è il mare: c’è un piccolo lago vicino a casa, ma pare che non sia un posto molto bello dove andare, è molto polveroso, ed è circondato da strade a quattro corsie. Abuja ha qualcosa di spettrale: se adesso butto lo sguardo fuori dalla finestra vedo un lampione che proietta un alone giallo sull’asfalto, auto in sosta, una strada deserta. Ora come ora non si percepisce neanche il ronzio dei generatori: l’elettricità pubblica è attiva, ma è appena passata una tempesta molto intensa. Sta arrivando la stagione delle piogge, dicono che arriverà tra poche settimane, chissà com’è qui, la stagione delle piogge. Chissà quella gente a nord-est, come ha vissuto la tempesta, chissà quelli che stanno nei campi profughi: ho saputo che laggiù sono volati via dei tetti di lamiera e ci sono stati dei feriti. La tempesta è passata, per me è passata, starà andando da qualcun altro in questo momento, magari verso sud, verso il petrolio. Abuja è un’altra città costruita per questioni di immagine da un regime dittatoriale. Ha ristoranti all’aperto chiamati Garden dove mangi la carne alla griglia e ti rilassi. Sì, certo, ti ricordi dove ti trovi quando nel silenzio della notte si alza un lamento che si fa progressivamente canto: è un muezzin che da un minareto intona uno dei Salat, il primo della giornata, la prima di una delle cinque preghiere quotidiane dell’Islam, quella di prima dell’alba; questo ti ricorda dove sei, insieme al fatto che ci sono forze armate e posti di blocco dappertutto, tanto che fai l’abitudine al mitra. Qui non ci sono grandi rischi però, a parte quello di attentati al centro commerciale. Ah, c’è anche un grande centro commerciale dove trovi di tutto: c’è la gastronomia, ci sono molte varietà di biscotti, c’è la verdura, la carne, la pasta, i sughi, i succhi, gli spazzolini da denti di tanti tipi, proprio come da noi; i giovani ci si fanno i selfie e se non stai attento ci puoi spendere molto. D’altra parte ad Abuja non ti senti circondato di ratti e scarafaggi. Ma a nord-est, dicevo, si sentono spari da arma da fuoco. Ci sono state decine di morti ammazzati nei primi mesi del 2016, anche se dicono che Boko Haram non c’è più e che la guerra è finita; nel frattempo però un ordigno ha fatto esplodere un carretto trainato da un asino lungo la via tra Potiskum e Damaturu e ci sono stati cinque morti (non so che fine abbia fatto l’asino); ci sono i campi profughi allestiti al meglio delle possibilità dove vivono centinaia di bambini; forse oggi un ragazzino ha deciso di arruolarsi: dicono che i giovani si arruolino perché Boko Haram offre prospettive di futuro (pare che ti presti i soldi per avviare piccole imprese, che qui è il sogno di molti ragazzini); ci sono duecento bambine, quelle di Chibok, ancora nelle mani delle cosiddette forze armate di oppozione, alcune di loro saranno fatte sposare ad uno dei loro aguzzini, altre potrebbero essere scelte perché si facciano esplodere e concludano la loro esistenza senza accorgersene trascinando con sé chi hanno attorno, magari i pastori nomadi, magari anche un pastore del sole. Ah, non c’è solo Boko Haram a mitragliare e far esplodere. Ci sono altre frange guerrigliere. E poi ci sono i pastori nomadi, che di solito sono Fulani, che fanno la guerra a colpi di machete e kalashnikov ai contadini, e i contadini fanno la guerra ai pastori nomadi. Eppure i Fulani – anche i pastori del sole lo sono – sono un popolo pacifico, ma adesso il deserto incalza e gli appezzamenti di terra buoni sono sempre meno. Io sto ancora qui, davanti a una passerella di moda con la mia Star, di tanto in tanto ho nostalgia di casa e penso che dovrei tornare a riprendere il filo della mia vita, non so che cosa farò dopo, penso a nuovi progetti, penso a quando sarò di nuovo in aeroporto, un aeroporto pulito, super-automatizzato, e guardando fuori ripenserò a com’è andata, e sarò felice di esserci stato. Mi torna in mente la mia squadra di assistenti sociali sierraleonesi che ogni tanto mi scrivono invitandomi a tornare da loro; penso ai bimbi di favela, a Maria Antonia, a Marianina, a Joni, saranno cresciuti, speriamo che vada tutto bene, devo andare a trovarli; penso a quando ero seduto nella piazzetta del pagode e a quando invece me ne stavo comodo su una sedia anatomica a norma sotto l’antennone di un’emittente televisiva e non potevo immaginare che un giorno mi sarei trovato in mezzo a quella piazzetta, e neanche qui a prendere appunti e a sognare nel candore degli occhi e dei denti dei pastori del sole. Intanto, lassù, a nord-est, dove tutto è sabbia, sabbia sul suolo, sabbia nell’aria che respiri, negli occhi e nella visuale che hai, sabbia nelle pareti delle abitazioni, che sono fatte di sabbia e si confondono col suolo, là dove tutto si confonde con il colore arancione, c’è un bimbo che corre dietro a un copertone che fa girare con un ramoscello; ci sono altri bimbi che, insieme, in quattro o cinque, hanno inventato un gioco nuovo: hanno preso una bottiglia di plastica e l’hanno tagliata in due, hanno incastrato l’una nell’altra la metà del fondo e quella della bocca mantenendo la prima orizzontale al suolo e l’altra mobile a quarantacinque gradi; di qua hanno infilato un bastoncino di legno e di là hanno applicato a mo’ di ruote quattro tappini tenuti insieme da due fuscelli, così adesso, impugnando il bastoncino, sognano di pilotare un automezzo dal muso quadrato, quadrato come quello dei tir abbandonati su questa strada che dicono attraversi tutto il Sahel. Intanto, lassù, a nord-est, per farti un lavoretto in casa in prospettiva delle imminenti piogge, avresti bisogno di un trapano, di una punta adatta, ben filettata, e dell’elettricità per farlo girare, e la punta non ce l’hai, non hai il trapano e non hai neanche l’elettricità, così per fare il lavoretto ti accontenti di qualche martellata alla bell’e meglio, oppure non fai proprio niente e aspetti, rassegnato al tuo destino. Lassù, a nord-est, intanto, al mattino è tutto un vai e vieni di biciclette e furgonicini gialloverdi a tre ruote e di bimbi con la camicetta verde e di bimbe col velo verde che si accompagnano da soli a scuola: uno cade con la faccia a terra, l’altro corre, l’altro ancora punta il dito verso il vuoto e ride da solo, altri due procedono piano piano, mano nella mano, divertendosi a scalciare la sabbia; uno pare disorientato, altri raggiungono finalmente lo spiazzo davanti alla scuola. Qui qualche bimbo messo sotto disciplina si impegna a spolverare con uno scopettino di rami una montagna di sabbia. Qualcun altro ha aperto un quaderno e fa un disegno, poi c’è chi si è seduto perché per oggi è arrivato fin qua ed è già stanco. Intanto, lassù a nord-est, ruote di biciclette solcano la sabbia, camion scassati fanno il carico doppio così gli autisti racimolano qualche Naira in più: se sono autocisterne col prezioso carico di carburante, legato alla botola sulla cima, si portano pure qualche carico di legna, e se trasportano capre e vacche portano anche uomini, e procedono verso est, verso il Camerun, verso il Chad. Lassù, intanto, a nord-est, in questo momento, proprio mentre ce ne stiamo affacciati alla Finestra, trasognanti come una schiera di namoradeiras, in questo momento sta capitando proprio tutto questo. Allora, se mi porto dentro questi pensieri, anche adesso, a questa festa, dove con la Star in pugno ho incrociato dal vivo i pastori del sole, tutto si solleva e prende a seguire la direzione di una linea fragile tracciata con un gessetto, le bambine di Chibok tornano a indossare il velo, quello verde, e raggiungono i compagni là davanti a scuola, i pastori del sole si dimettono dalle passerelle di moda, tornano nelle terre dove l’acqua si ritira e riappare con l’avvicendarsi delle stagioni, infilzano le armi su una zolla, la fanno finita di massacrarsi a vicenda per l’ultimo ciuffo d’erba e i loro occhi e i loro denti tornano a splendere candidi perché possano essere scelti da chi li amerà.
(Ed ecco, intanto, qui sotto, alcune immagini del nord-est alternate ai pastori del sole tratti dal documentario di Herzog che parla di loro – invece la prima parte di questo racconto la trovi qui).