Da Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno, di Un impiegato in favela
Perché hai pianto la prima volta?
Perché sei nato?
Per un giocattolo rotto?
Per un ginocchio sbucciato?
Per un abbraccio negato?
Per un bacio mai dato?
Per un cazzotto incassato?
Per un braccio spezzato?
Per un calcio di fucile nei denti?
Per l’auto esplosa?
Per essere dovuto scappare?
Per casa tua carbonizzata?
Per tua figlia carbonizzata?
– Che cos’è questa cosa? Puoi spegnere la radio, Madieu?
– Ahahah! È una canzone molto popolare, di un gruppo sudafricano, fa: “perché hai pianto la prima volta?”. A me piace ridere comunque. Spengo.
Madieu ha una risata dirompente. Ogni volta che si legge “ahahah” tra le righe di Madieu, bisogna immaginarsi il suo volto rotondo arricciarsi all’improvviso al confine delle sue grandi narici come se si sforzasse invano di trattenere una bolla di felicità che, rilasciata dal petto generoso, presa velocità lungo la trachea, è decollata da quel volto prima arricciato che ora si espande di stupore e divertimento.
– Che cos’è quella cupola, Madieu?
– È la moschea di Gheddafi. L’ha donata al governo sierraleonese dopo la guerra.
– Ah sì? Perché?
– Sì, perché prima aveva sostenuto i ribelli. Quando i ribelli hanno abbandonato, per chiedere scusa al governo, gli ha donato questa moschea, che è la moschea più grande della Sierra Leone. Pare che fosse infarcita di armi e moto, e di borse per gli onorevoli.
– Borse?
– Sì, borse, borse piene di soldi.
– Tu dov’eri durante la guerra?
– Ahahah! Ero qui, ero qui.
– E che facevi?
– Noi siamo scappati nelle province. Vedi questa strada? Che da Calaba Town porta a Waterloo? Era sbarrata. Là in fondo c’erano i ribelli. Non si passava.
– E come avete fatto a scappare?
– Siamo passati dalla Peninsular, e poi abbiamo attraversato le foreste. Ma abbiamo visto quello che capitava qui. Vedi questa fila di auto parcheggiate? Passavano i ribelli, le cospargevano di benzina e le incendiavano. Ahahah! In tenute come quelle dove stai tu, entravano, chiudevano a chiave nelle stanze chi c’era dentro, anche gente come te, davano fuoco e bruciavano tutti vivi.
– Avevate paura?
– Ahahah! Non dimenticheremo mai il 6 gennaio.
– Che cosa è successo il 6 gennaio?
– È il giorno in cui i ribelli sono entrati in città, tra sequestri e mani e gambe mozzate, stupri e occhi cavati dalle orbite. Molti civili sono stati caricati sulle navi. Andavano a rifugiarsi in un’isola là di fronte. Ma nelle navi non ci stavamo tutti. Altri scappavano nelle province, come abbiamo fatto noi. Chi veniva preso, andava a lavorare nelle miniere. Non potevi riposarti. Se mentre trasportavi pietre sulla testa dicevi che eri stanco, ti sparavano e ti dicevano: “adesso puoi riposare”, ahahah! Altri restavano qui in attesa del loro destino. Vedi questi edifici anneriti e senza tetto? Molti sono ancora i resti della guerra.
– E come è finita la guerra?
– Sono arrivati quelli dell’ONU, la forza portatrice di pace.
– E come hanno fatto a farla finire?
– Hanno incontrato i ribelli e hanno detto loro: “Le vostre condizioni di vita sono inaccettabili? E di quanto avete bisogno per renderle accettabili?”. E hanno dato loro una borsa.
– Una borsa come quelle di Gheddafi?
– Proprio così. Hanno dato loro le borse e hanno consegnato moto in cambio delle armi. Così i ribelli hanno deciso che erano stanchi della guerra.
– E che cosa hanno fatto? Dove sono andati?
– Sono rimasti qui. Sono tornati a fare quello che facevano prima. Ahahah! Molti di loro, avendo ricevuto la moto, adesso sono i tassisti degli okada.
– Ci sono state rappresaglie?
– No, no. Ahahah! Li conosciamo tutti uno a uno, ma niente vendetta. Tutto è tornato tranquillo.
[…] In occasione dell’anniversario di guerre note, la Finestra ricorda che sono state e sono in corso guerre silenziose, silenziose per chi non le vive; e torna ad affacciarsi sulla favela Rocinha, riproponendo”Un fine settimana in guerra” rivisitato. Con l’invito a rileggere anche di un’altra guerra che è stata silenziosa fino a quando non finì: la guerra dei diamanti e della moschea di Gheddafi. […]
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