Da Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno, di Un impiegato in favela
– Mi chiamo Musu e vendo cuccioli. Me ne sono preso uno in casa: un cucciolo di uomo lasciato orfano dall’ebola. Si chiama John, ha cinque anni, ed è il nuovo fratellino di altri sette bambini che stanno in casa mia: due maschi e cinque femmine. Mio marito attualmente è disoccupato. Viviamo in un villaggio di Koya Rural, in una stanza con un telo di plastica che fa da tetto; quattro pareti di fango ci separano dalla palude. I bambini non vanno a scuola perché non abbiamo soldi per comprare loro quanto sarebbe necessario.
– Casa nostra invece il tetto non ce l’ha, e sotto al cielo siamo cinque adulti e undici bambini. Quando minaccia pioggia, ci adoperiamo tutti alla ricerca di teli di plastica e sacchi per il riso per coprire la casa. Dicono che molti dei nostri bambini sono anemici, che penso che vuole dire che non hanno il sangue buono.
– Sono molto preoccupata per le nostre condizioni di vita. Nonostante questo, abbiamo preso con noi la piccola Hawanatu: sua zia se l’è portata via l’ebola e non avrebbe saputo dove stare. Farà compagnia ad altri cinque bambini. Siamo tre adulti a portare avanti la casa, e due scansafatiche. Mi occupo di produrre e vendere stufe a carbone. Mio marito per fortuna lavora ed è quello che porta a casa la maggior parte del pane.
– Pane? Fino a poco tempo fa raccattare da qualche parte una tazza di riso da cucinare per i bambini era un grosso problema. Mi chiamo Mamie, ho cinquant’anni e sono nonna di undici bambini. Insieme ad altri cinque adulti, mettendo insieme le risorse, facciamo del nostro meglio per cavarcela. Spero solo che queste bimbe qui, ora che sono cresciute, non mi facciano aumentare il numero di bambini da mantenere. Non possono andare a scuola e con tutto il tempo che passano in giro, sono sempre a rischio di essere ingravidate.
– Ha lasciato i suoi genitori perché la sua famiglia non può procurarle beni primari (cibo, vestiti). Vorrebbe un posto migliore dove dormire: per il momento dorme davanti all’ingresso, in sala, che è l’unico spazio libero… o meglio… è proprio l’unico spazio.
– A causa della separazione dei genitori è stata obbligata a cercare riparo in un’altra abitazione. È stato un grosso problema. Si è appoggiata dalla sorella della nonna. È stato quando si è trasferita in quella nuova casa che è rimasta incinta.
– La bimba lavora, sì. Aiuta la madre a coltivare e a vendere gli ortaggi. Quando è rimasta incinta hanno dovuto far lavorare anche l’altra sorella più piccola perché dovevano prendersi cura di quella incinta e perché presto dovranno prendersi cura di un bambino in più. Così hanno potuto tenerla con loro e non l’hanno obbligata a cambiare casa come capita a molte altre.
– Sì, lo so, l’ho sentito che tra 18 giorni la Sierra Leone sarà ufficialmente libera dall’ebola, ma posso dirti quello che penso? Quando c’era l’ebola almeno lavoravo. Ho lavorato come cleaner presso un centro di cura dell’ebola. Ora il centro è chiuso e io ho perso il lavoro.
18 giorni senza nuovi infetti per dichiarare l’ebola finita in Sierra Leone. 9 giorni al rimpatrio di Un impiegato in favela. Il capitolo Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno chiuderà dopo il consueto ultimo racconto e dopo una novità. Finestra sulla favela invece resterà aperta ancora per qualche tempo sull’area rurale sierraleonese, con Finestra sulla terra di Un ricercatore in favela.