Da Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno, di Un impiegato in favela
Di solito preferisco che la Finestra non racconti ciò che capita in ufficio, per rispetto verso i colleghi e il datore di lavoro, e perché trovo che ne derivino storie noiose per chiunque che non sia direttamente coinvolto. Ma ciò che è successo in questi ultimi due giorni devo lasciarlo andare: un soffio su una manciata di parole a caso, e che esse prendano il volo fuori dalla finestra.
Ci sono luoghi, in Sierra Leone, che raggiungi attraversando file di lamiere di zinco e assi di legno incastonati l’uno nell’altro. Oltre la palude che calma le onde furiose dell’Oceano e le accompagna ad accomodarsi placide tra le mangrovie, e a confondersi con la melma, e infine a liquefarsi in polvere; oltre la strada ora asfaltata, ora buche, rivoli di fogna e impasto di escrementi e fango; oltre la fila di baracche che ospitano abitazioni, parrucchieri, sarti, officine di moto e rivenditori di assi di legno e ferramenta, commercianti di buste di plastica e cancelleria, piccoli banchetti di corpi di pollo e pesce giacenti l’uno sull’altro in penombra, a lume di candela, sfiniti dall’ardore della piastra; oltre i negozi di DVD e dischi, che la sera alzano il volume e mostrano un film ad una piccola folla immobilizzata dalla meraviglia; oltre la strada, oltre il mercato, tra le distese di fango interrotte dalle palme che si stagliano a indicare il cielo, e finiscono per ripiegarsi al suolo, vivono comunità di donne, uomini e bambini che negli anni sono stati martoriati dalla guerra e dalle epidemie, e che escono decimate dall’ultima atroce condanna senza processo.
– Ma lo sai da quanto tempo questa gente non vedeva un sacco di riso? – Mi ha chiesto con domanda retorica, alla fine di due giornate estenuanti e strepitose, un amico, padre Maurizio, che ha passato gli ultimi vent’anni in Sierra Leone, a tirare su bambine e bambini torturati e violentati dalla guerra. – Vedi? Questa ragazza l’ho incontrata per la prima volta che aveva 9 anni. Aveva un occhio che le penzolava giù dall’orbita, gliel’avevano estirpato i ribelli. E dovresti vedere le cicatrici sulla schiena.
Sono venuti due volte qui, i ribelli. Una volta hanno rapito anche me. La sera chiacchieravano normalmente, ma poi si imbottivano di droga e andavano a compiere massacri.
Quest’altra è sordomuta. Ha due bambini, nati per causa di stupri. Non è facile capirla e farsi capire, ed è oggetto delle attenzioni di alcuni uomini.
E questo bimbo che ti porti dietro chi è?
– Si chiama Sonnie, è il mio assistente. Oggi abbiamo imparato che per consegnare mezzo sacco di cereali a ciascuna delle prossime 360 persone in fila, abbiamo bisogno di 180 sacchi di cereali, e che l’Italia sta oltre le colline, oltre la foresta, il deserto e il mare che si chiama Mediterraneo, che è più piccolo dell’Oceano, e che l’Italia è un Paese piccolo a forma di stivale, vero Sonnie?
Annuisce il bimbo, che ha assistito me e una determinata squadra di assistenti sociali e trasportatori di pesi nella distribuzione di circa 60 tonnellate di cibo a più di quattrocento bambini ospitati in diversi orfanotrofi e a più di seicentotrenta famiglie. Per un mese non dovranno pensare tutti i giorni a come procurarsi da mangiare, e potranno pensare ad altro, ad esempio a cercare un lavoro più stabile. Le famiglie sono composte per lo più di bambini: ci sono famiglie da dieci minori, e raramente da meno di tre. La favela è la città dei bimbi, la Sierra Leone è il Paese dei bimbi.
Sotto ai sacchi di riso che, come da uso e tradizione locali, vengono trasportati a casa sulla testa (e in questo modo, una volta consegnati, spariscono con strabiliante velocità), ci sono i volti, i pensieri e i sorrisi di un anziano nonno, di una giovane mamma che, se ti vede imbronciato perché il camion è in ritardo, ti invita a lasciarti andare a un sorriso, della signora Ya Wulu Koroma, che nell’ex campo di rifugiati liberiani (e poi sierraleonesi) di Waterloo, ha perso fino a trentacinque familiari e ora accudisce qualche bambino rimasto orfano di altri genitori e fa compagnia agli assistenti sociali che l’invitano in ufficio ogni giorno perché canta e fa ridere.
Ah, ci troviamo nel mezzo della stagione delle piogge: vuol dire che il cielo scroscia e ulula ogni giorno e ogni notte. L’ha fatto almeno per un mese intero. Nei due giorni di distribuzione del cibo c’è stato sempre il sole.
Ecco cento volti e qualche sacco di riso (e a seguire la galleria fotografica, una nota informativa):
La distribuzione di cibo è avvenuta nel contesto del progetto di protezione infanzia implementato da COOPI – Cooperazione Internazionale, finanziato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) e potenziato in termini di quantità di cibo e logistica dal World Food Programme (WFP). Andrà avanti ancora per tre mesi. Associata ad attività di supporto psicosociale e formazione, la distribuzione ha lo scopo di donare un momento di sollievo ai più vulnerabili dopo un anno troppo duro.