Oggi ha piovuto molto in Rocinha, come anche ieri: il caldo umido della primavera inoltrata si condensa in nuvole, e senza tuoni e fulmini di allerta, come quando azioni il diffusore, poche gocce ti cadono sul capo e un muro d’acqua ti scroscia sulle spalle e in un attimo ti rende fradicio. Le improvvisate fogne straripano lungo le strade, i cessi rigurgitano, i topi impazziscono e tutto diventa più difficile agli occhi di chi sta affacciato alla finestra, ma i bimbi di favela continuano a correre scalzi sull’asfalto bagnato, divertiti; e gli uomini a lavorare. Laggiù in mezzo alla valle, in cima al terrazzo di quell’edificio che stanno sopraelevando di un piano ancora, sulla cima di una traballante scala a pioli, a torso e pancione tondo nudi, costume da mare, ritto in punta di piedi sulle havaianas, un uomo fa le misure e sposta materiale, in compagnia di due colleghi. Appena appoggiato a un palchetto di legno reso marcio e inscurito dall’acqua che viene giù, resta sospeso tra una distesa di cemento grigio e mattoni rossi e una enorme nuvola che, guidata da un soffio di vento, nasconde la Pietra e aleggia sopra di lui e sopra la favela. L’uomo distende le braccia in alto, e con le mani sembra voler afferrare la nuvola, che gli sfugge sempre: lavoratori che inesorabili portano avanti le loro fatiche nella nebbia e sotto la pioggia, e per farsi coraggio ballano.