un impiegato in favela

Pensieri altri: una risposta

In Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno on 17 Maggio 2015 at 13:04

Piccolo spazio dibattito

Non amo la psicologia raccontata alla lettera: ciò che conta è il movimento, l’evento dai quali derivano l’emozione. L’emozione si moltiplica, e forse dall’alchimia delle emozioni scaturisce la psicologia. Non amo scrivere opinioni, di solito non lo faccio sotto alla Finestra. Qui faccio un’eccezione. In riferimento a certi commenti, a certi pensieri altri, ecco come la penso, e ci metto la faccia (con maschera).

Un'opinione. Questa volta ci metto la faccia.

Un’opinione, e questa volta ci metto la faccia (con maschera).

Non idealizzo il mondo del cooperante, tanto che ne discuto spesso con i colleghi, di tutte le contraddizioni che ogni mondo, il nostro incluso, si porta in pancia. Ma partiamo da qui, da uno di questi commenti:

“Con tutto il rispetto x queste persone ma solo l’ebola ci manca in Italia e poi credo che siamo apposto ma immaginate se la situazione degenerasse x qualsiasi motivo? Sarebbe catastrofico. Grazie.”

Ma non lo sai che è già stato catastrofico, e che lo è ancora? Che lo sia stato e che lo sia per altri e non per te non lo rende meno catastrofico. Eppure, va bene, lasciamo perdere il discorso del prossimo, dell’aiuto agli altri, perché se lo imbocchiamo, non ci capiremo mai. Lasciamo perdere anche che con ogni probabilità chi scrive questi commenti e chi coltiva questi pensieri non si è mai preso la briga di approfondire l’argomento di cui sta parlando; in questo caso, di informarsi un minimo sull’ebola, di venire a conoscenza di quali siano i sintomi, le conseguenze, e soprattutto le modalità di contagio. Lasciamo anche perdere il discorso per cui se uno va in un Paese a realizzare un intervento di sviluppo dell’agricoltura dove si muore di fame, o di difesa dei diritti dove i bambini vengono arruolati in eserciti civili e le bambine sono vittime di mutilazioni genitali femminili, magari poi un giorno quei bambini, crescendo, non saranno costretti a lasciarlo, quel Paese, per venire ad arrecarti disturbo entro i tuoi confini politici. Lasciamo perdere tutto questo e cerchiamo invece di capire che cosa voglia dire fare il cooperante.

Per fare un esempio emblematico, ecco qui un estratto da una storia che la BBC ha pubblicato di recente:

“Nearly 40 years ago, a young Belgian scientist travelled to a remote part of the Congolese rainforest – his task was to help find out why so many people were dying from an unknown and terrifying disease.” “Quasi 40 anni fa, un giovane scienziato belga ha intrapreso un viaggio per un luogo remoto della foresta pluviale del Congo – il suo compito era contribuire a capire perché così tante persone stavano morendo di una malattia sconosciuta e terribile”

virus ebola – da BBC news

Immaginate se il giovane ricercatore belga non fosse mai andato nel profondo Congo ad individuare il virus di quella misteriosa e terribile malattia. Magari anche per trovare se stesso, per carità, chi lo nega, ma comunque anche ad individuare il virus. Facciamo che non è il caso di apprezzare semplicemente l’idea di salvare la vita di un altro, di salvare una vita che si svolge fuori dai tuoi confini politici. Facciamo che non ci basta perché il sierraleonese di turno non conta, non sta a casa nostra, magari poi ci si rivolta contro, magari è un terrorista; facciamo che il sierraleonese di turno non è un pezzo dell’unica umanità, dell’unico mondo al quale tutti apparteniamo. Facciamo che non è così. Facciamo che conta solo se uno in una qualsiasi parte del mondo, per un qualsiasi obiettivo, con qualsiasi intenzione, sta salvando la pellaccia a te.

Bene, forse, se quel giovane scienziato belga non fosse andato a fare il figo in quel cuore di tenebra, magari davvero l’Ebola sarebbe arrivata nel nostro salotto, come per esempio ha fatto l’HIV. Magari, un giorno, dal lavoro di quel romantico Don Chisciotte verrà fuori uno straccio di vaccino, non dico per il sierraleonese di turno, perché tanto di lui nulla ci importa, ma magari un vaccino proprio per te e per me.

Questa gente, la gente composta dai cooperanti, solo per farti un esempio, sta cercando un vaccino che salva te e me, e non solo: – perché ripeto, non è detto che sia un mondo ideale, quello dei cooperanti – diciamo che questa gente più o meno consapevolmente agevolerà anche il lavoro di chi cerca i diamanti che indossiamo io e te, il petrolio per i giretti fuori porta che ci facciamo io e te, le risorse che servono a te e a me; perché le nostre, di risorse, io e te ce le stiamo ciucciando tutte.

Ecco, allora, per questo e altri motivi, forse il costo dell’assicurazione (che peraltro le organizzazioni pagano privatamente) e quello dell’aereo e delle cure mediche quando purtroppo diventano necessarie, più che come un costo potrebbero forse essere pensate come un investimento? Se sì, magari, allora, per questo e altri motivi, ringraziamolo, il cooperante; ringraziamolo, l’infermiere che in questo momento sta lottando per la vita. E facciamogli un in bocca al lupo gigante.

Magari per qualcuno dei lettori tutto questo era scontato, e mi scuso con loro per le parole e il tempo sprecati; ma forse scontato non era per tutti. E ora torniamo al racconto. Ti racconto una storia, che magari farà coraggio a te, come magari all’infermiere, caso mai dovesse trovarsi a leggerla, e a qualche altro cooperante.

Nearly 40 years ago, a young Belgian scientist travelled to a remote part of the Congolese rainforest – his task was to help find out why so many people were dying from an unknown and terrifying disease. […]

“The area was beautiful. The mission was surrounded by lush rainforest and the earth was red – the nature was incredibly rich but the people were so poor,” says Piot. “Joseph Conrad called that place ‘The Heart of Darkness’, but I thought there was a lot of light there.”

The beauty of Yambuku belied the horror that was unfolding for the people that lived there.

When Piot arrived, the first people he met were a group of nuns and a priest who had retreated to a guesthouse and established their own cordon sanitaire – a barrier used to prevent the spread of disease.

There was a sign on the cord, written in the local Lingala language that read, “Please stop, anybody who crosses here may die.”

“They had already lost four of their colleagues to the disease,” says Piot. “They were praying and waiting for death.”

Piot jumped over the cordon and told them that the team would help them and stop the epidemic. “When you are 27, you have all this confidence,” he says. […]

“We shouldn’t forget that this is a disease of poverty, of dysfunctional health systems – and of distrust,” says Piot.

“For this reason, information, communication and involvement of community leaders are as important as the classical medical approach,” he argues.

Ebola changed Piot’s life – following the discovery of the virus, he went on to research the Aids epidemic in Africa and became the founding executive director of the UNAIDS organisation.

“It led me to do things I thought only happened in books. It gave me a mission in life to work on health in developing countries,” he says.

“It was not only the discovery of a virus but also of myself.”

Quasi 40 anni fa, un giovane scienziato belga ha intrapreso un viaggio per un luogo remoto della foresta pluviale del Congo – il suo compito era contribuire a capire perché così tante persone stavano morendo di una malattia sconosciuta e terribile. […]

“La zona era molto bella. La missione era circondata di lussureggiante foresta pluviale e la terra era rossa – la natura era incredibilmente ricca ma le persone erano così povere,” racconta Piot. “Joseph Conrad ha chiamato quel posto ‘Cuore di tenebra’, ma secondo me c’era molta luce laggiù.”

La bellezza di Yambuku sottendeva l’orrore che si stava dischiudendo alle persone che vivevano lì.

Quando Piot arrivò, le prime persone che incontrò furono un gruppo di suore e un prete che avevano creato un rifugio e avevano stabilito un cordone sanitario – una barriera che aveva lo scopo di prevenire la diffusione della malattia.

C’era un cartello sulla corda, con una scritta nella lingua Lingala locale che leggeva: “per favore fermati, chiunque passi di qui sarà a rischio di morte.”

“Avevano già perso quattro dei loro colleghi per la malattia,” racconta Piot. “Pregavano e aspettavano la morte.”

Piot saltò dall’altra parte del cordone e disse loro che la squadra li avrebbe aiutati e avrebbe fermato l’epidemia. “A 27 anni hai molta fiducia in te stesso,” dichiara. […]

“Non dobbiamo dimenticare che questa è una malattia di povertà, di sistema sanitario affetto da anomalia e di perdita di fiducia,” dice Piot.

“Per questa ragione, l’informazione, la comunicazione e il coinvolgimento dei capi delle comunità è importante così come l’approccio sanitario classico”, argomenta.

L’Ebola ha ambiato la vita di Piot – dopo la scoperta del virus, ha proseguito con la ricerca sull’epidemia di Aids in Africa ed è diventato il direttore esecutivo e il fondatore di UNAIDS.

“Mi ha portato a fare cose che pensavo potessero accadere solo nei romanzi. Mi ha dato una ragione di vita, di lavorare per la salute nei Paesi in via di sviluppo,” racconta.

“Non si è trattato solo della scoperta di un virus ma anche di me stesso.”

A questo collegamento la storia completa.

Qual è il mondo in cui vorresti vivere?

virus detective who discovered ebola in 1976 - da BBC news

Doctor Piot – da BBC news

  1. […] Mi scuso con i lettori se per un attimo rivolgo la Finestra nella direzione della riva di partenza: è una necessità. Se i lettori vorranno contribuire con una risposta, un’opinione, un commento ai commenti, leggerò volentieri. Domani pubblicherò la mia, di risposta. […]

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  2. […] a seguito di certi pensieri altri e di una risposta, e dei recenti fatti di cronaca e di reazioni di vario genere, sarà forse il caso che la Finestra, […]

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  3. […] dicevano che poteva portare l’ebola. Ho ricevuto strane minacce, alle quali ho provato a rispondere a mio modo. Una volta una  bimba non è stata lasciata entrare a scuola. Non veniva neanche dalla Sierra […]

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