un impiegato in favela

Cuore di pietra (2/2 – ai piedi della moschea degli Omayyadi)

In Finestra MEMO on 2 marzo 2017 at 14:07

Da Finestra MEMO, Di Un impiegato in favela

Damasco, cuore di pietra, ai piedi della moschea omayyadi

Non so quando nacqui, credo nascita non sia parola che possa rendere la mia natura. Ci sono sempre stata, ne sono certa, tanto quanto sono sicura che un giorno finirò insieme a questo mio lento sgretolarmi. I miei primi ricordi risalgono a quando avevo la testa bella dura (ma anche adesso è dura, solo un po’ più liscia) ma soprattutto a quando avevo gomiti squadrati, all’età nella quale godi della prospettiva di un’eternità intera davanti a te, hai presente, no? Ma fui trascinata in questo angolo di mondo in tempi più recenti. Quanto tempo è passato da allora? Un attimo, un attimo dell’eterna mia esistenza, eppure tante, tante vite delle vostre; forse cento, delle vostre vite. Qui dove mi trovate oggi, ai piedi delle mura che mi privano della vista di un pezzo di cielo ma non di quest’altro del quale solo le nuvole di tanto in tanto compromettono la purezza appena prima di dissolversi; qui, di fronte al colonnato, che quando arrivai era molto diverso (non era il mercato che è oggi, il mercato dal tetto che scariche di mitra francesi bucherellarono pochi anni fa tanto che di notte oggi vi si intrufolano raggi di sole pallidi, quelli riflessi dalla luna e da altri pianeti morti), qui, in fondo a quella che un tempo fu la via principale di un accampamento romano, qui giunsi quando per queste strade si dedicavano parole di devozione al faraone Akhenaton. Dopo di lui fu l’assiro Tiglatpileser, poi il babilonese Nabucodonosor, il persiano Ciro e Alessandro Magno. I passanti spendevano parole di apprezzamento ora all’uno ora all’altro. Conosco gli esseri umani: parlano, hanno paura, piegano la testa dinanzi al potere per amore della vita. Così fu anche quando arrivò Roma. Mi ricordo, sì, mi ricordo, perché fu allora che mi usarono per tirare su un colonnato che costruirono fortissimo e che non molto tempo dopo vide la sua possanza sbriciolata in frammenti. I romani restarono qui per centinaia di anni ma non furono sempre gli stessi. Costruirono il tempio a Giove quando ad esso erano devoti e poi, al suo posto, ci costruirono il luogo di culto che ancora oggi in molti raggiungono con accenti, capelli e colore della pelle diversi, per adorare la testa che fu mozzata dalla donna che porta il nome che divenne noto a tutti: Salomé.

Dopo, Dimašq fu di Bisanzio (così i passanti denominarono il centro del potere al quale allora erano sottomessi). Poi furono gli arabi, i grandi condottieri: Khālid ibn al-Walīd, Abū ʿUbayda ibn al-Jarrāh, Yazīd ibn Abī Sufyān, Shurahbīl ibn Hasana e Amr ibn al-ʿĀs. Non mi mossi di qui e la gente prese a parlare in modo diverso e a considerarsi sudditi del califfato, che si estendeva immenso da ovest a est. In questo periodo costruirono molto attorno a me. Le mura che mi sovrastano non furono più protezione della cattedrale di Giovanni Battista ma della grande moschea degli Omayyadi. Ma in un soffio di vento, proprio del sangue degli Omayyadi mi ritrovai pervasa e questa città fu gradualmente abbandonata: i viandanti e i commercianti cominciarono a parlare di Baghdad.

Gli Abbasidi distrussero molto di quello che era stato costruito ma io ancora una volta me la cavai. Poi fu il commercio, furono i turchi e i crociati; la città fu liberata da questi da Nūr al-Dīn, al quale successe Salāh al-Dīn. Fu quest’ultimo, a gettare le fondamenta delle scuole di ispirazione sunnita. La città fu e rimase per sempre il centro della cultura di questa parte del mondo. I quartieri furono divisi tra commercianti: nella cittadella, non distante (io da qui però ne scorgo solo qualche angolo e la coda di qualche gatto che procede sornione a filo dei cornicioni), si creò quella ramificazione di stradine umide nelle quali ora ci si sentiva immersi nell’odore del cumino e si intuiva la dolcezza della manna, ora si affondavano le dita nell’ammaliante seta, ora ci si lasciava sorprendere dalla brillantezza delle sciabole, ora si attraversavano nuvole di segatura sollevate dagli artigiani che intagliavano e decoravano (come continuano a fare oggi). Ma i mongoli distrussero tutto e per un po’ non vidi più passare altri che pochi fuggitivi spauriti, fino a che non fu la volta dei mamelucchi e poi degli ottomani. Seguirono decenni di solitudine, fino a che non passò di qui il segnale dello scontro con un mondo di cui prima di allora non si era saputo niente: tutti presero a parlare di conquistatori dall’occidente e di colui che prese il nome di Lawrence d’Arabia. Oggi non si parla più una sola lingua: si diffondono suoni anglosassoni, francofoni, curdi, arabi, accenti assiri e armeni.

Oggi sono arrotondata, lucida, con qualche difetto della mia dura pelle. Dimašq è salva, ma non Aleppo, non Deir el Zor. Una coppia di fuggitivi di Aleppo, in un sospiro e uno sguardo per chiunque impercettibile (ma non per me), hanno confidato la testimonianza del passaggio di una flotta di elicotteri carichi di barrel bomb, di aerei che hanno fatto fuoco a scarica di mitra e che hanno diffuso i gas al cloro, i gas che infiammano i polmoni e ti soffocano nei tuoi stessi liquidi. Oggi una giovane ragazza si è seduta qui di fianco a me e ha nascosto le lacrime nel suo stesso velo, poi si è alzata e l’ho vista scomparire in mezzo a decine di altre come lei, nel corridoio del mercato infilzato dai raggi di sole che si insinuano attraverso i fori delle pallottole della guerra precedente. Resterò qui ancora per molto, ce ne saranno altre, di guerre, forse questa moschea qui dietro si muterà in altro, un giorno questi diecimila anni saranno cancellati e perfino di me avanzerà solo polvere…

…scusate, è ora di tornare a parlarvi con la mia voce, quella del cantastorie. Quando i miei personaggi mi attraversano con racconti del tempo non posso fare a meno di rivolgere lo sguardo a me stesso; sento gli occhi fuggire distante e un affanno rallentarmi il respiro. Eppure il tempo della mia vita non è che un battito di ciglia per il nostro personaggio; ciò che accade oggi non è niente, il volto del presidente riprodotto sui muri, sulle pareti dei bar, su quelle del bar Nafura, su quelle di ogni ufficio, di ogni locale di commercio, sulle vetrate dei grattacieli, quel volto non è che uno come tanti altri che si sono susseguiti nei secoli. Ciò che accade oggi, dal punto di vista di una pietra alla base delle mura di un edificio che fu tempio, cattedrale e moschea, non è che la frase di un racconto antico dall’incipit che sfuma nei millenni. Non succede nulla per una pietra dagli angoli che lo scorrere dei secoli ha reso più morbidi. Gentile pubblico, piccoletto mh mh, è ora. Se vi va di andare a conoscere personalmente chi mi ha attraversato, potrete farlo, potrete contemplare l’alternarsi delle età, lo scorrere del tempo; la mia non è che la voce tremante di vecchio che non si fa più triste all’incupirsi del cielo, né si eccita al suo rasserenarsi. Le parole le ho pronunciate io, non sarà la pietra a ripeterle, ma, se vorrete avvicinarvici, essa vi concederà uno scintillio appena percettibile, il riflesso di una giornata che si fa luminosa: è lì che sono racchiusi i secoli, assieme a questo presente dalle sfumature di cloro e a tutto ciò che dobbiamo ancora affrontare.

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