Da Finestra sulla Nigeria (del nord), di Un impiegato in favela

Campo profughi Abuja (foto di Giovanni Vezzani)
Mi chiamo Asana, A S A N A, si dice Asana, sono nata a Borno qualche anno fa ma abbiamo fatto tanta strada e adesso sono qui, nel mezzo di questo spiazzo tra case alte anche due o tre piani che c’hanno le finestre. Ma noi non stiamo lì, noi stiamo in queste casette più piccole quaggiù, queste qui dalle pareti che luccicano. Vivo con la zia. La zia ha una pallottola nella gamba, per questo cammina con le stampelle e ogni tanto sta seduta. Stiamo con la zia perché la mamma è in Camerun, così dicono, e non so quando arriverà. Lei è Elisa, è più piccola di me, e si porta sulla schiena il suo piccolo fratello che dorme sempre. Oggi Elisa ha giocato a saltare e il piccolo fratello ha fatto un tonfo col testone per terra e si è svegliato, allora Elisa ha smesso di saltare, se l’è ripreso dietro la schiena e lui si è addormentato di nuovo. Elisa ha una mamma che l’altro giorno è arrivata dal Camerun, però la mia non c’era perché forse ha ancora della strada da fare: la strada per arrivare fin qui è lunga. Infatti la mamma di Elisa era stanca perché ha dovuto camminare per tanto tempo e poi salire su un camion e poi camminare ancora, proprio come abbiamo fatto noi. Qui in questa casetta con le pareti che luccicano al sole stiamo io e la zia e poi Fatima e il fratello grande, Nusa, che dice di avere nove anni e sa scrivere il suo nome sui fogli di carta. Poi ci sono Mohammed, William, Musa, Fatima e un’altra bambina che non so come si chiama perché non parla mai. Quando stiamo tutti dentro che fuori piove non c’è molto spazio e io preferisco stare sotto la pioggia. C’è anche un bagno qua fuori, ma puzza. A me piace stare qui e ci starei di più perché non sparano e tuto attorno ci sono delle case di tre piani e anche quattro, ci sono le strade grigie e ci sono molte automobili.
Qui ci siamo arrivati perché siamo scappati di notte. Abbiamo camminato così tanto che mentre camminavano si è fatto giorno e poi si è fatto notte di nuovo e poi di nuovo giorno, e così per un po’ di volte, non so quante volte. Siamo scappati perché dicevano che avrebbero sparato molto e che ci avrebbero presi per tenerci in posti dove si sta stretti e al buio, così abbiamo fatto molta strada e ci siamo stancati molto, ma adesso va meglio. Qui c’è anche una persona grande che ci insegna i numeri: io per esempio so già contare fino a sei e mi piace farlo battendo le mani. Ti va? Ma prima volevo dirti che oggi ci hanno portato dei pacchi che chissà che cosa c’è dentro, io spero le ciabattine perché mi fanno male i piedi di sotto: qui è pieno di sassi e non c’è tanta sabbia come nel posto da dove veniamo. Però oggi non mi facevano tanto male perché ho tenuto in mano una mano diversa, chiara come la buccia del mango quando è dolce, tanto chiara che si vedevano le vene. Ho tenuto quella mano nella mia mano e ho visto che le nocche di quelle dita si piegavano come le mie. Con le mani mi hanno pure fatto saltare per aria e mi è venuto da ridere. Abbiamo fatto tanta strada e adesso stiamo nel mezzo di questo spiazzo, tra casette piccole dalle pareti che luccicano, e oggi ho tenuto in mano una mano dal colore del mango quando è dolce, ho volato e per un po’ sono rimasta con la testa scoperta a prendere aria tra le treccine. Poi quelli con le mani dal colore del mango quando è dolce se ne sono andati, io ho rimesso il velo e resto qui, e sto a vedere che cosa succede da questa parte della finestra.
N.d.r. Segue la galleria fotogtafica creata da Giovanni Vezzani, cooperante COOPI, durante la distribuzione di beni di prima necessità presso un piccolo campo profughi di Abuja ad opera dell’associazione Fashion For Charity, associazione creata da tre giovani fotografi nigeriani che hanno voluto attivarsi per il loro contributo alla crisi umanitaria. Presso questo piccolo campo profughi vivono Asana, Fatima, Nusa e altri trecentocinquanta bambini e oltre fuggiti dal nord-est della Nigeria afflitto da Boko Haram.