Da Finestra sulla Nigeria (del nord), di Un impiegato in favela
Vado vai, vado che almeno per un po’ fa bene dimenticarsi, dimenticare se stessi; lasciare indietro i passi avanti, gli obiettivi, i termosifoni, il canone rai, la neve e gli sci; lasciare a casa gli occhiali da sole, i balli, l’aperitivo, le vacanze d’agosto, la maratona metropolitana, la primavera, il libro in più, la doccia calda, la chitarra, il corso di cucina e quello di teatro, l’ultimo postumo di David Bowie, dimenticare tutto questo per ricordarsi. Ricordare se stessi, che veniamo dalla terra, abitiamo nella foresta, tra due pareti di lamiera, di fango o di ghiaccio, che siamo bambini che sorridono a tutto e tirano i capelli (lo fanno ovunque); ritrovare il colore della pelle, la capacità di aspettare, la pazienza di non fare altro che vivere, solo vivere, restare liberi e disoccupati, ricordare la necessità di fuggire, di sfuggire a un pericolo, di salutare, di stringere una mano, di saper dire una parola gentile, dirla non solo per cortesia ma anche per trarne un vantaggio (è così che si sopravvive): ricordarsi che siamo umani e abbiamo secondi fini, che abbiamo quelli e nient’altro, ricordarsi di non avere nulla e che per questo dobbiamo lottare per ottenere qualcosa ogni singola giornata di cui riusciamo a vedere il tramonto; ricordarsi di essere, di essere qualcosa o qualcuno su questo pianeta, in questo stato, in questo momento storico, ovunque e sempre.
Sono convinto che sia del tutto comprensibile che tu ti senta più coinvolto emotivamente per un evento terribile, una guerra, un attacco terroristico che avviene a poche centinaia di chilometri da casa tua con amici tuoi sul posto coinvolti, con te coinvolto. Quel Je suis è alla lettera: siamo proprio noi le vittime e non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo o scriverlo (che bisogno c’è di ribadire che io italiano sono quasi belga o francese, che io europeo sono europeo?). L’empatia non si comanda, tanto meno si comanda un’ipotetica empatia globale: consideriamo parte del mondo (quella fuori dalla nostra porzione) come un altro mondo e parte dell’umanità (fuori dal nostro occidente, nel nostro caso) come altra umanità. Però, solo per un attimo, proviamo a sognare: come vivremmo se invece potessimo decidere le nostre azioni, le nostre scelte politiche, e se spontaneamente sentissimo le nostre emozioni e i nostri pensieri in funzione dell’essere parte di un’unica umanità? Come vivremmo se la divisione tra le varie tribù di questo nostro mondo non dipendesse dalla distanza geografica o culturale ma solo eventualmente dal grado di disponibilità di ciascun individuo a rispettare un ipotetico patto di convivenza globale? Ricordo le immagini dell’alluvione di Firenze degli anni ’60 e di gente che arrivava da tutto il mondo ad aiutare, gli “angeli del fango”. Lasciamo perdere gli angeli, parliamo del fango. Ciò che conta è che siamo accorsi ad infilare le braccia nel fango perché il fango all’improvviso ha inondato casa nostra. Che cosa succederebbe se casa nostra fosse ovunque? Che cosa succederebbe se considerassimo casa ogni singola favela del mondo: Rocinha, Yemen, Siria, Turchia, Nigeria, Repubblica del Centrafrica, Sierra Leone, Sudan, Afghanistan, Somalia?
Vado vai, vado anche perché almeno per un po’ fa bene dimenticarsi, dimenticare se stessi. Sono stato a casa, mi sono goduto ogni angolo di bellezza, ogni momento di comodità, ho bevuto l’acqua dal rubinetto, ho passeggiato, ho comprato, ho consumato, ho visto gli amici, ho vissuto i luoghi, ho conversato nella mia lingua con persone della mia cultura, sono stato bene, sono stato a casa e adesso vado. Vado e aprirò la Finestra come nelle precedenti occasioni: si sa, per sentirsi meno soli bisogna aprire le finestre.
Ricapitolando, la Finestra è stata aperta su una vera favela sudamericana e poi su altri luoghi lontani e vicini a contempo, su altre emarginazioni, su altri episodi di straordinaria umanità spesso offuscata e violentata dal pregiudizio: sulla Sierra Leone che mentre si parlava solo (e male) di ebola non era solo ebola ma anche sierraleonesi, sulla Sierra Leone che mentre non si parlava più di ebola continuava ad essere anche ebola (e non solo) e sulle sue comunità rurali. Adesso dove vado? Lasciami prendere un aereo; quando atterro mi adagerò sulla cima di un precipizio che si affaccia sul delta di un fiume immenso e misterioso, oppure al fianco del frusciare di cascate che precipitano al termine di una terra sconosciuta; alle spalle una foresta di sabbia. Qui conoscerò un bimbo che fugge da qualcosa, mano nella mano con una signora anziana o forse da solo; e ti dirò come si chiamano il bimbo e la signora anziana e ti rivelerò su quale luogo del mondo ti sei affacciata (o affacciato).
Dunque, ancora una volta, apri Finestra sulla favela, se ti va qua sotto puoi iscriverti al sito, puoi seguire la pagina facebook o il mio account di twitter. Ecco una piccola galleria fotografica con qualche ricordo di questi anni. Un abbraccio e a presto.










In bocca al lupo per questa nuova finestra.. Grazie per darci la possibilitá di guardare fuori con te.
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Grazie a te, Gianluca, per continuare a stare qui affacciato con me. Evviva il lupo!
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