Ha chiamato il taxi. Non so come pagarlo.
“Abbiamo chiamato il taxi, ti porterà a casa”, continua a ripetermi, ma io non so come pagarlo. Come farò quando il taxi sarà qui? Mi metterò d’accordo con il taxista forse, che mi lasci all’angolo là in fondo, così loro sono contenti e io non devo confessare che non posso pagarlo, e dopo vedrò come fare. Sì, l’autista è uno che abita in fondo alla Cemetery Road, l’ho riconosciuto, mi metterò d’accordo con lui. Devo chiamare qualcuno per il riso, per il materasso, per il secchio, per il cloro, e per le altre cose che mi danno: come farò a portarle a casa? Che bello sarebbe, se non avessero chiamato il taxi. Devo far arrivare a casa tutto quello che mi hanno dato senza il taxi. “Perché non sorridi, non sei felice? Sei guarita!”, continua a ripetermi. Sì che sono felice, ma il taxi come lo pago? “Hai un marito, una sorella, un amico che possa venire per accompagnarti?” Gli dirò la verità, sì, dirò la verità, che non ho nessuno, che sarò a casa da sola, perché tutta la mia famiglia è in ospedale, e che non posso pagare il taxi. Sta arrivando il taxi. Caricano il riso, il materasso e le altre cose. Devo salire. Dovrò parlare al taxista. Dovrò dire che non posso… il taxi lo paga quello lì, quello che mi fa le domande. Lo sta pagando lui. Lo lo paga lui. Ora sì che mi viene da sorridere, e anche da ridere. Sono felice. Torno a casa, e per il momento ce l’ho fatta, sono guarita: quello che mi è capitato, ora lo vedo dallo specchietto retrovisore di questo taxi.