Per fare la spesa, a Ponte Lambro, c’è sempre il mercato comunale, ma se vuoi navigare in un universo di scaffali che espongono mille marche diverse per ciascun prodotto, allora, o prendi il 45 e vai al Billa di viale Ungheria, oppure il 27 e vai all’Esselunga di piazzale Ovidio. La signorina D. va sempre al Billa di viale Ungheria perché la fermata dell’autobus è praticamente di fronte all’uscita del supermercato e a lei piace così. Ammazza i minuti di attesa con un libro e ritiene di non avere null’altro da pretendere dalla vita.
L’ho incontrata oggi di ritorno dal Billa ed era piuttosto scossa. Non aspettava altro che le chiedessi come stava per affidarmi un nuovo racconto per la Finestra. Il rituale spesa-sacchetti-libro-attesa del 45 in viale Ungheria era stato spezzato da un imprevedibile evento: uno sgangherato furgoncino bianco, del tutto simile a quello che qualche giorno fa le aveva portato via in un soffio di vento le tre bimbe Rom incontrate sotto al viadotto, si era sfacciatamente piazzato in mezzo alla fermata dell’autobus. Ammaccato sulla fiancata visibile lato marciapiede, un finestrino rotto rammendato alla meglio con un telo di plastica opaco, il furgone sostava di traverso ai tratteggi gialli della fermata, sornione e strafottente della decurtazione dei punti della patente e del rischio di arrecare un disagio al prossimo.
La signorina D. mi ha confessato che le capita spesso di sentirsi in forte imbarazzo quando vede commettere delle infrazioni in modo così sfrontato, come anche le capita quando alla tv sente di gravi ingiustizie commesse ai danni di qualcuno. Si sente arrossire e scuotere dai brividi per la vergogna, come se, suo malgrado, si rivelasse lei stessa la colpevole dell’ingiustizia o, in questo caso, dell’infrazione. Mentre mi chiedevo se fosse questo il meccanismo psicologico causa del suo evidente turbamento, la signorina D. proseguiva nel suo racconto.
Si mise ad osservare il furgone di sottecchi da dietro al suo libro – Addio alle armi di Hemingway, stava leggendo – e non poté fare a meno di lanciare una sbirciatina dentro all’abitacolo. Notò che il furgone non era abbandonato: dietro al volante c’era un uomo, un giovane uomo dalla pelle caffellatte e le spalle e il petto coperte a malapena da una canottiera sporca e consunta. Provò nuovamente un brivido e quel gusto di aspro selvaggio sul palato: la stessa sensazione di quando aveva incontrato le tre piccole Rom. Sempre nascosta dietro alle pagine di Hemingway, che provava a raccontarle della sua esperienza sul fronte dell’Italia nordorientale nel corso della prima guerra mondiale trovandola inaccettabilmente distratta, continuava a scrutare il telo opaco, attraverso il quale scorse una nuova presenza improvvisa che la fece sussultare: come bruchi che spuntano da una zolla di terra, ecco comparire le faccine sporche e disordinate di due bimbi mori che ridendo saltavano e picchiavano contro la plastica. Apparivano e scomparivano dietro al surrogato di finestrino facendo le boccacce e gli occhi storti alla signorina D.. Confusa, essa cercò conforto presso la signora anziana che aspettava il 45 di fianco a lei; ma questa aveva lo sguardo assorto su un punto insignificante del marciapiede e non si accorse di nulla. Allora la signorina D. si fece coraggio e tornò a rivolgersi al furgoncino. L’uomo al volante continuava nella sua impassibile indifferenza, incurante del caos che generavano i due bimbi, che però nel frattempo erano scomparsi per lasciar spazio ad una nuova presenza che si faceva strada lentamente da sotto lo sportello: compariva, con la stessa lentezza inesorabile e lineare del sole quando albeggia, un ricciolo biondo, poi due, poi una testa folta di ispidi riccioli biondi intrecciati confusamente in un groviglio, poi una piccola fronte; poi la crespa chioma finiva per diradarsi in un paio di occhi enormi, profondi, color del mogano. Il viso di una bimba bellissima e selvaggia, facendo calare sul palco di quel teatrino un’angelica calma contrapposta all’agitazione di prima, era sorto, a quanto mi ha riferito concitatamente la signorina D., a fissare dritto dritto proprio i suoi occhi. La signorina D. non mi ha nascosto che le venne istintivo di guardarsi attorno cercando ancora una volta sostegno presso la signora anziana al suo fianco, che però continuava nel suo atteggiamento assorto in un qualche angolo del marciapiede; o presso qualche altro cliente che usciva dal supermercato; senonché attorno a lei nulla sembrava mostrare interesse per il suo dramma. La signorina D. mi ha dichiarato con orgoglio che ha sempre saputo farci con i bambini, così, sebbene continuasse a provare una certa inquietudine in questo caso, tornò ad affrontare la piccola bionda che era rimasta a fissare proprio lei, e ora aveva preso a rivolgerle un sorriso luminoso. Era così dolce, quella bimba, che la signorina D. provò un immediato spontaneo moto di affetto nei suoi confronti, e si sentì sciocca per lo stato d’animo di prima. Tuttavia, sempre stando a quanto mi ha riferito, appena ebbe deciso di ricambiare il sorriso, la bimba fece sorgere dal finestrino opaco la sua piccola manina, che mostrò alla signorina D. dal lato del palmo prima di chiudersi in un pugno dal quale si divincolarono tre dita: l’indice, il mignolo e il pollice, a formare un paio di corna perfette. Proprio in questo momento il 45 si era accodato al furgone, che, al primo suono di clacson, si mise in moto e si allontanò insieme ai ricci biondi della bimba, al suo angelico sorriso e alle sue corna che continuavano ad essere rivolte nella direzione della signorina D. mentre si facevano sempre più piccole e sfuocate.
La signorina D. fece accesso al 45 con le borse della spesa e, poco dopo, di ritorno al Ponte Lambro, mi ha incontrato e mi ha riferito che si era sentita come quando in una notte apparentemente calma, al Ponte Lambro, nel cielo irrompe un fulmine e dopo tuona, e mi ha chiesto cortesemente di rivolgere a chi si affaccia alla Finestra il seguente quesito: per caso, nel linguaggio Rom, fare le corna è un gesto di simpatia e affetto?