Il racconto del mio arrivo a Rio è molto lungo: doveva esserlo nella prima parte che descrive il percorso dall’aeroporto alla favela perché durante questo percorso non è successo un granché. Consiglio a chi non abbia tempo e voglia di leggere tanto, ma volesse sapere da subito che cosa si prova – o almeno che cosa ho provato io – a volare in una favela, di saltare tutta la prima parte e volare direttamente alle ultime righe, sotto il titolo “Il volo in favela Rocinha“.
All’uscita dell’aeroporto “Antonio Carlos Jobim“, l’aeroporto di Rio de Janeiro, trovo Barbara Olivi e Julio De Rezeende – presidente e vice-presidente della Onlus grazie alla quale mi trovo a Rio de Janeiro – ad aspettarmi con Toca, signore sorridente, tozzo e dalla pelle dura e scura: è il fedele autista che da più di dieci anni accompagna negli spostamenti i primi due, insieme a volontari e collaboratori e visitatori, e nelle occasioni più svariate, a volte liete, a volte drammatiche.
Carichiamo i bagagli sul camioncino di Toca, un plasticone degli anni ’70 italiani, oggi fuori moda anche a Rio: adesso gli operatori privati dello spostamento metropolitano – legali o tollerati o illegali che siano – si sono organizzati con camioncini più belli e funzionali. Comunque, quello di Toca è a secco di benzina (a gasolina), fondamentale per avviare un motore ibrido benzina-gas. Dopo una lotta appassionata e corporea che mi ha fatto sentire nella pelle la semplicità di un motore, Toca riesce ad avviare il mezzo e il viaggio comincia, lungo il largo viale che congiunge Ilha do Governador al centro di Rio.
Guardandomi indietro, l’aeroporto mi appare come un blocco di cemento giallo ocra, opaco e scarno; una caserma diroccata. Mi sento già in un altro mondo se confronto questo con quello di Madrid, dove ho fatto scalo: tutto illuminazioni e torri di vetro, treni per gli spostamenti da un terminal all’altro, tapis roulant, robot delle pulizie ed efficienza. Chiedo se sia in corso una ristrutturazione che, nell’ottica dei prossimi mega-eventi brasiliani (mondiali di Calcio 2014 e Olimpiadi 2016), mi sembra ragionevole, ma mi dicono che i soldi, che pure sono stati stanziati, vanno a finire nelle tasche di qualcuno o vengono divorati da altri sprechi.
Ai lati di lunghi tratti del viale ci sono alte barriere di cemento: impediscono la vista verso le favelas che si estendono dall’altra parte. Qualche anno fa, quando questi muri non c’erano, i soldati del narcotraffico transitavano indisturbati e armati in mezzo alla strada, e saccheggiavano i turisti.
Volgendo lo sguardo davanti si scorge una baia ondulata e irregolare e all’Orizzonte la Ilha Grande, dove il quarantennio di dittatura aveva relegato l’Università: lontano dal resto della città, perché gli studenti fossero preservati da distrazioni che avrebbero potuto distoglierli dallo studio e, dovendo dedicare molto tempo agli spostamenti, anche dalla possibilità di aggregarsi, riflettere, protestare.
Sono le sette di sera e già il tramonto è sull’essere compiuto: a fine giugno qui è inverno e, quando tramonta, la temperatura scende e l’umidità abbraccia le colline, tutte imponenti, più larghe che alte, alcune tempestate dalle luci delle baracche che sembrano in gara tra loro per raggiungere la cima; da una di queste cime si scorge una luce imponente e vaga, quella che si riflette dal Cristo avvolto dalla nebbia.
Proseguiamo verso Lagoa, quartiere di ceto medio-alto, poi il Jardim Botanico, e infine Gavea, da dove cominciamo a risalire una delle due colline che stringono e isolano la favela Rocinha.
Il volo in favela Rocinha
Passiamo di fianco a una scuola americana per ricchi, barricata di cemento e filo spinato addosso al quale un ragazzo a dorso nudo e avaianas difficilmente si lancerebbe, e posti di guardia della polizia militare. Saliamo e sopra le nostre teste compaiono i primi fili elettrici appesi e penzolanti come liane; si infittiscono come – in una strada che prima era deserta – i moto-taxi e i passanti che ai primi sembrano passare attraverso. I fili elettrici diventano grovigli sospesi in aria, legati alla meglio a pali di legno, a pareti di mattonato rosso e a lamiere; le luci accese dei bar, i negozi stretti l’uno all’altro come per strada lo sono le moto i bambini i ragazzi e gli adulti; ragazzini fermi a bordo strada con i volti seri da adulti, bambine piccole che portano in braccio bambini ancora più piccoli che ridono, colline di immondizia sui marciapiedi, le pareti si incastrano l’un l’altra senza inizio e senza fine e si aprono su panorami nei quali la vista si perde tra foreste colline e mare, scale a strapiombo e ancora motorini e fili elettrici e baracche che si arrampicano storte su tetti di altre baracche e un frastuono di motori, di petardi e di gente que fala (che parla).
Sono entrato, per la prima volta nella mia vita in una baraccopoli sudamericana, altrimenti detta favela; sono entrato in quella più grande del Sudamerica: la favela Rocinha.
bene arrivato.
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Grazie Peppe! Arrivato, ambientato e favelado!
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[…] Dall’atterraggio al volo in favela (26 giugno 2012) […]
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