– Apriamo l’ospedale il 14 dicembre.
– Dottore, è impossibile.
– Allora apriamo il 12.
– Ok.
Si entra in zona rossa che non è ancora rossa; bene, l’acqua ha l’odore del cloro e mi sta scolorendo i pantaloni. Bene la sala di terapia intensiva, bene i corridoi, gli armadi riempiti di cotone, garza, pigiami, pannoloni, paracetamolo, antibiotici, pompe siringa e concentratori di ossigeno attaccati alle prolunghe; il generatore funziona a pieno regime, seicento persone sono state assunte e formate nel giro di pochi giorni e sono impegnate nel campo ospedale ognuna con il suo compito, il magazzino è stracolmo di guanti indicatori, guanti sterili, tute protettive, stivali di gomma, caschi, materassi – si innalza un muro di materassi e cuscini –, lenzuola, pigiami, acqua, secchi per la clorina, tavoli, sedie, tavoli Mayo, scaffali con le rotelle; Mr. Mohammed sorveglia gli scatoloni ed è pronto a dirigere i giovani per fare ordine. Arriva lo staff medico. I pazienti sono dentro, corrono tutti, corro anche io, corre anche Mr. Mohammed. Un armadio in meno, i guanti sbagliati, un gesto sconsiderato possono fare la differenza tra la vita e la morte. Le distanze sono enormi, si comunica via radio e con i telefoni. Si completa l’allestimento nei dettagli. Passa qualche ora e si comincia a respirare. La sera arriva anche questa volta. Di notte si resta all’erta e il giorno dopo si comincia alle 7. Il magazzino sputa fuori e diffonde penne blu e rosse, spillatrici, raccoglitori, macchinari biomedicali; i generatori rombano se sei all’ingresso dell’ospedale e se sei in fondo ronzano; il cloro brucia il virus sulle tute protettive e sui guanti, i condizionatori nelle sale di terapia intensiva abbassano di qualche grado questo caldo che è insopportabile per i pazienti e per il personale che indossa la maschera, il casco e la tuta che non lascia passare virus; quattro sarti in fila cuciono divise, pigiami e asciugamani, e sono felici di farlo; Momoh, giovane saggio e precisissimo, prende appunti e il magazzino funziona. Funziona anche la mensa e funzionano le lavatrici, le asciugatrici, i neon e la glove box del laboratorio; la farmacia ha gli scaffali pieni e le ambulanze fanno avanti e indietro a rilasciare pazienti da Lakka e da Waterloo. Muore il primo paziente. Poco dopo, il primo paziente viene dimesso: materasso, riso, kit igiene, taxi e il primo sorriso del primo sopravvissuto. Il giorno dopo ne viene dimesso un altro. Oggi ci si riposa, c’è il tempo di alzare il viso al cielo, e il cielo e la terra d’Africa sono pervasi di foschia. L’orizzonte è distante e le palme e le colline verdi ne fanno parte: si sciolgono nell’orizzonte e si confondono nella foschia. Sul davanzale della finestra una mantide religiosa verde, lenta, enorme e dignitosa come una lavoratrice africana, aspetta la sua prossima vittima, e in cielo si spiega il volo di uno stormo di aironi. Immanuel, Momoh, Lauretta, Mr. Mohammed, Michael Wunda, Ernest, Baba, Samuel, Jacob, Amara, Alimatu e gli altri se la cavano alla grande. L’ospedale funziona. È domenica e la chiesetta misto cattolica, evangelica e islamica, racchiusa tra quattro mura di legno e qualche mattone e il tetto di zinco, che si trova poco distante dall’ospedale, ha preso ad intonare un canto allegro e calmo come questo popolo, un Halleluja che aumenta di ritmo e intensità mano a mano che le donne nelle loro gonne ampie e colorate e i bambini in ciabattine e pantaloncini lisi giungono qui da un sentiero che si insinua tagliando una diagonale in una distesa di erbaccia; e il canto, la sua intonazione rassegnata e vitale e il suo accento Crio raccontano la storia di questo Paese agli infermieri, ai medici internazionali, ai logisti, ai sarti, agli uomini e alle donne delle pulizie, alle cuoche, agli autisti, ai camionisti, ai pazienti, ai futuri pazienti e a quelli che non saranno mai pazienti. Dalla finestra ora si scorge il mare enorme che schiva le nostre piccole vicende e questo strano viaggio, e osservare l’orizzonte e il volo degli aironi è ciò che voglio fare oggi.