un impiegato in favela

Memoria manzoniana

In Finestra sul Ponte Lambro on 10 ottobre 2014 at 12:45

lazzaretto durante la peste (san carlo al lazzaretto oggi (immagine da http://promessisposi.weebly.com/)

– Pedrino chi? – mi sentivo domandare da una voce prima distante nella quale a poco a poco riconobbi quella della signorina D., mentre eravamo appena scesi dall’autobus circolare, – Pedrino? Spiriti Animali, signor Marco? È sicuro di star bene?

– Diceva, scusi, signorina?

– Ha preso a parlarmi di tale Pedrino e degli Spiriti Animali, io non la seguo…

– Oh, lasci andare, signorina, Pedrino non è che un bimbo che ho conosciuto. Piuttosto, mi dica lei: mi accennava a un incontro in metro.

– Oh sì, signor Marco, ma il suo riferimento al bambino mi ha fatto tornare in mente quanto mi è successo poco prima di prendere la metro. Se lei permette…

– Prego, l’ascolto. Intanto che si va verso casa…

– Sto tornando dal cinema. Sa, sono uggiose queste prime giornate di autunno e la noia si fa sentire più che mai: ti si avvicina lenta e subdola come un’enorme mano sudata; ti ci abbandoni senza opporre resistenza, come avviene in quei sogni nei quali, di fronte a un pericolo, sai di poter scappare; ma qualcosa nella tua testa ti immobilizza e non ti resta che arrenderti al tuo predatore; in questo caso, al palmo viscido dell’autunno, al cielo grigio immobile. Le è mai capitato qualcosa del genere, signor Marco?

– Credo di sì. Comunque, ha fatto bene ad andare al cinema… diceva?

– Oh sì, sono andata all’Arcobaleno. Mi piace molto. Sono arrivata in anticipo per i biglietti e non c’era nessuno. Così ho pensato di andare a prendere un caffè. Il cinema fa angolo tra viale Tunisia e una via stretta e poco illuminata. Un bambino, che potrebbe assomigliare al suo Pedrino, mi ha lanciato un’occhiata ed è scomparso dietro all’angolo correndo, così, in un modo che mi è venuto naturale seguire i suoi passi, intanto che non avevo altre destinazioni. Percorsi un paio di isolati, mi sono sentita circondata da volti duri dalla pelle scura che mi fissavano con diffidenza. Non glielo auguro, signor Marco. All’ingresso di un bar di cinesi, un bivacco di giovani appoggiati sul marciapiede emanava un forte odore di birra. Tre ragazzini mi venivano incontro aspirando forti boccate di una sigaretta fatta a mano, mi avvolgevano in una nuvola di fumo denso e passavano oltre mentre la nuvola si dileguava. All’angolo in fondo, davanti alla saracinesca abbassata di una sartoria, tre uomini in piedi in mezzo al nulla, in attesa di chissà chi o che cosa, mi fissavano come se stessero aspettando proprio me, oppure forse attendevano che passassi oltre come se chissà che cosa stessero facendo prima. L’illuminazione era scarsa, ma sull’asfalto del marciapiede si riflettevano le luci delle insegne dei bar, delle pizzerie take-away, dei kebab. C’era persino un negozio che faceva solo tiramisù: Il paradiso dei tiramisù. Una giovane donna dai denti dorati se ne stava stravaccata davanti ad un locale, del quale, da fuori, si scorgeva solo un corridoio stretto. Mi ha agganciata con due occhi così grandi e belli che per un attimo ho sentito di volermi arrendere a lei, come se fosse l’impersonificazione della noia e delle giornate uggiose di cui le parlavo prima. “Da dove vieni, come ti chiami?”, ho pensato di volerle chiedere, ma i suoi occhi sono svaniti, come la nuvola di fumo di quei giovani, come il bimbo che mi aveva portato a spingermi  fin qua. Ed ecco un bar per il mio caffè; dall’ingresso si vedeva bene come fosse fatto dentro e aveva un aspetto accogliente a sufficienza. Poco prima di raggiungerlo, mi sono trovata di fronte un edificio curioso: una cappelletta antica dalla pianta spezzata da molti angoli (ottagonale, avrei scoperto poi), incastonata in quel groviglio di viottole, insegne sfocate e volti scuri avvolti dalla nebbia. Un cartello giallo poco a lato della porta (chiusa) della chiesetta, mi informava che si trattava della cinquecentesca San Carlo al Lazzaretto. L’insegna del mio bar recitava: “Memoria manzoniana”. Allora, signor Marco, l’ambiente è mutato all’improvviso, perché ho capito dove mi trovassi: proprio al centro dell’antico Lazzaretto, quello della grande peste di Milano raccontata nei Promessi Sposi.

Con slancio mi sono recata al bar della memoria manzoniana. Invogliata dal nome, mi aspettavo chissà quale nobile incontro, ma dietro al bancone non ho trovato che un uomo dal codino fino alle spalle, unto, la catenina che gli penzolava giù dall’orecchio e i denti ingialliti, presumo dal tabacco, che sputacchiava squallide battutine verso due donne dalla succinta minigonna di pelle, i tacchi alti e – devo dire – un bel decolté. Spizzicavano noccioline al tavolo di fuori. Non erano del mio stile, ma sono certa che non meritassero le attenzioni scomposte del barista.

Delusa, dopo aver superato un primo moto di indignazione indotto dal timore che il locale stesse usurpando la memoria dei fatti storici e letterari ai quali pure pretendeva di ispirarsi, non senza un piglio provocatorio, ho fatto i complimenti al barista per la scelta della denominazione, ma lui mi ha risposto con una smorfia presto trasformata in un sorriso di imbarazzo, prima di tornare alle battutine di prima. Così, signor Marco, mi sono resa conto che non era tanto il bar a sfruttare la memoria manzoniana per i suoi scopi, ma, signor Marco, capitava che il lazzaretto stesso ed i suoi antichi abitanti che qui cinquecento anni fa calpestavano proprio quello stesso suolo, doloranti e avvolti dalle pezze, per non essere dimenticati, si erano impossessati di quell’insegna all’insaputa del proprietario e tutt’ora, mentre io le sto raccontando di questo mio incontro, sono lì presenti. Hanno segnato i volti degli abitanti di adesso con la loro inquietudine e agli occhi grandi di quella giovane dai denti d’oro hanno infuso la speranza ed il dolore che si accompagnano al tentativo di restare disperatamente aggrappati alla vita. Forse, signor Marco, certi fatti dolorosi restano incollati per centinaia di anni al luogo dove si sono verificati; e resistono. Resistono sebbene manchino della cura e del rispetto di chi viene dopo. Così, forse, anche il ricordo di questa gente emarginata, costretta a fuggire di casa e poi dimenticata dietro un angolo remoto di una metropoli, tra cinquecento anni resterà vivo negli occhi di chi allora abiterà questi luoghi… e nelle insegne degli esercizi commerciali. Che ne pensa, signor Marco, non è forse così?

– Deve essere proprio come dice lei, signora D.

– La ringrazio per la comprensione, signor Marco, lei è molto gentile.

– E lei è molto cortese, signorina D.. Anzi, col suo permesso, riporterò il suo racconto sulla Finestra.

– Sarebbe per me un onore. Che ne pensa, potrebbe forse accompagnare il racconto a un brano  dei Promessi Sposi ambientato poco distante dalle strade che ho scoperto questa sera?

– Buona idea. Ah, e si ricordi poi di farmi sapere che cosa le è successo in metro mentre tornava a casa.

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’ anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.

san carlo al lazzaretto oggi (immagine da http://promessisposi.weebly.com/)

san carlo al lazzaretto oggi (immagine da http://promessisposi.weebly.com/)

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