un impiegato in favela

Matheus e la deriva dei continenti

In Finestra sulla favela Rocinha, Il popolo di Rocinha on 23 novembre 2013 at 13:24

Il pollo allo spiedo lo gira, lo rigira, lo solleva e lo taglia un uomo piccolo, molto magro, con gli  zigomi sporgenti e le guance scavate, le orecchie e il naso allungati dall’età, pochi capelli a spazzola grigi e pochi denti; indossa sempre la stessa maglietta gialla con lo stemma del locale, troppo larga per lui; carica sulla schiena casse di birra senza smorfie e senza sospiri, con la rassegnazione che fa apparire l’azione senza sforzo. Qui, al ristorante del pollo allo spiedo, c’è la televisione appesa in alto, posizionata a metà tra i tavolini dentro e quelli fuori che invadono la estrada da Gávea, intralciando il passaggio di auto, moto, autobus, camion e pedoni. Quando c’è la partita del Flamengo il ristorante si riempie. Nel corso delle poche serate libere dal calcio, danno una telenovela di produzione brasiliana, molto popolare.

Le vicende si svolgono in salotti ampi, luminosi e ventilati, arredati di divani larghi e paffuti, e di lampadari enormi e luccicanti. I salotti non ammuffiscono per l’umidità, non capita mai che vengano investiti da folate di fogna provenienti dalle tubature. I personaggi hanno la pelle bianchissima, gli uomini sono vestiti in giacca e cravatta, le donne in abito da sera anche quando è mattina, e i loro gioielli luccicano come i lampadari. No, non è ambientata in favela, la storia narrata. La signora delle pulizie, lei sì, è scura di pelle e indossa panni umili, lei sì che viene da una favela, ma non si vede mai, perché sta nella stanza di  servizio. A Rio de Janeiro, fino a pochi anni fa, le governanti, le donne delle pulizie, le bambinaie, le cuoche e le cameriere al servizio delle famiglie  del ceto medio-alto vivevano in una porzione di appartamento costituita dalla cucina, da un piccolo bagno, dalla lavanderia, e da una stanza di un metro quadro, tanto quanto basta per contenere appena un letto a una piazza. Accedevano alla loro nicchia tramite  una porta e un ascensore di servizio perché non si mostrassero quando ci  fossero ospiti. In un metro quadro vivevano, allevando i figli dei padroni e affidando i propri all’abbraccio della Comunità. Tutto ciò si verifica anche ai nostri tempi, ma meno spesso, perché il valore degli appartamenti è aumentato come il caro-vita, e le famiglie dei quartieri benestanti si guardano bene dal concedere anche solo un metro quadro a un subalterno. I personaggi della telenovela gridano l’uno contro l’altro, piangendo, graffiandosi e tirandosi i capelli, tenendosi a distanza di un paio di metri, parlando, parlando, e qualche volta minacciando di avvicinarsi per venire alle mani. In questi momenti drammatici, quelli che sono di passaggio fuori dal ristorante del pollo allo spiedo si bloccano in mezzo al marciapiede, pietrificati davanti alla televisione. Anche gli avventori del ristorante si immobilizzano, e il boccone resta a mezz’aria. Ai tavoli dentro e a quelli fuori, e sul marciapiede in mezzo, decine di persone hanno gli occhi sbarrati e trasognanti e restano in silenzio a seguire la vicenda. Quando la litigata furiosa è sospesa per far partire la  pubblicità, i corpi si sciolgono, gli arti riprendono vita, gli avventori riprendono a sventrare il pollo e a svuotare le bottiglie di cerveja, i passanti esplodono in una risata e scuotono la testa a destra e a sinistra come ad assegnare alla scena televisiva una bonaria disapprovazione mista a incredulità, e proseguono il cammino. Un bimbo mulatto dalla faccia tonda e i capelli ricci si affaccia al mio tavolo:

– “É … na televisião?

– “Desculpa? Quer saber que tem na televisião?” (“Scusa? Vuoi sapere che cosa danno alla televisione?”)

– “Tu non parli il portoghese!?”

– “Sì sì, parlo, parlo, devo migliorare, ma parlo, solo che non ho capito che cosa hai detto.”

–  “Da dove vieni?”

– “Italia.”

– “Parla la lingua del tuo Paese” – Il bimbo si siede di fronte a me, le ginocchia sulla sedia, i gomiti sul tavolo, il mento appoggiato ai palmi.

– (in italiano) “Questa è la lingua del mio Paese, mio caro, si chiama italiano, perché è la lingua che si parla in Italia.”

Bocca spalancata, il bimbo non sa aggiungere una parola.

– (torno al portoghese) “Come ti chiami?”

– “Matheus”

– “Matheus, anche tu puoi imparare l’italiano. Prova a dire: il mio nome è Matheus”

-“Il mio… Il… Il mio nome è Matheus”

Un sorriso si spiega sul volto di Matheus – “Questo è italiano?”

– “Sì Matheus, hai parlato in italiano!”

– “Caraca!” – sospirando, di nuovo con la bocca spalancata. –  “Perché in Italia parlate diverso?”

– “Questa è una buona domanda, il mio caro Matheus. Diciamo che un popolo nasce, poi si divide, perché alcuni viaggiano, se ne vanno. Così le persone vivono lontano tra loro, e ognuno, stando per conto proprio, prende a parlare diverso. Altri parlano ancora più diverso perché tanto tempo fa i continenti si sono separati e hanno separato i popoli. Più o meno.”

– “Vuoi dire che se vado in Italia e parlo italiano, divento italiano?”

– “Be’, sì.. no… più o meno. Diciamo che se tu volessi, potresti venire in Italia e potresti imparare l’italiano.”

“Caraca!” – lo sguardo di Matheus si perde lontano, forse fino a là in fondo, dove la estrada da Gávea si contorce a tornanti nella curva do S, e forse ancora più lontano.

Poi mi stringe la mano, mi sorride e se ne va.

  1. […] si affacciano ad altre finestre, da questa finestra, e da Mariana e Joni, da Orulho e Andreina, da Matheus, dal Gaúcho, da João, da Lia, da C, da Wellington, e da João, da José, da Jesus, da Mané, da […]

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  2. […] con “amor à vida”, capito? L’amore per la vita (e senza nessun riferimento alla telenovela), secondo me, i vostri punti di vista non saranno poi così diversi… – Eccolo il signor […]

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