un impiegato in favela

Tracce di un bagliore, di un’eco lontana (ovvero, parte prima dell’epilogo)

In Finestra sulla favela Rocinha, Oltre la favela Rocinha on 17 gennaio 2013 at 15:20

La strada verso Caraiva, passando da Trancoso e Arraial d’Ajuda

È il primo gennaio del 2013 e i fari di un autobus che, salpando da Rio de Janeiro cinquecentoundici anni dopo la sedicente scoperta avvenuta a seguito dell’avvistamento dal posto di vedetta di una nave portoghese delle terre che in seguito sarebbero state raccolte in nazione sotto la denominazione “Brasile”, accompagnerà a nord i suoi passeggeri fino allo Stato  di Bahia, dove questi giungeranno dopo venti ore di viaggio, stanno fendendo l’oscurità di una notte profonda illuminando con un bagliore tenue una strada dall’asfalto consumato e dalla superficie irregolare, orfana di illuminazione artificiale così come della luce riflessa dalla luna e proiettata dalle stelle: la metropoli è ancora troppo vicina perché le si possa distinguere. L’autobus avanza sospeso sul mare mentre percorre il ponte che in 16 chilometri congiunge il centro della città di Rio de Janeiro al quartiere di Niterói; le onde appaiono vicine e irraggiungibili ai passeggeri che si affacciano alle vetrate del veicolo e le finestre sono gli oblò di una nave la cui carena sfiora appena la superficie dell’Oceano, come quella della barca azzurra che dall’Africa accompagna in una terra sconosciuta Yemanjá, costretta a coprire i suoi seni prima liberi e la sua coda di sirena con le vesti bianche e celesti di una divinità europea e cristiana. Il Cristo Redentore taglia di un bianco candido il nero pesto di una notte innaturale e volta le spalle ad una nave che è tornata ad essere mezzo di trasporto terrestre, avendo oltrepassato il ponte, essendosi lasciata indietro la composizione di luci gialle, bianche e arancioni provenienti dalle case e dai grattacieli della metropoli e dalle baracche delle favelas.

L’autobus procede veloce attraverso terre desolate e l’oscurità concede di tanto in tanto un effimero suggerimento del paesaggio che lo circonda, ora lasciando intravedere l’ombra di una palma o di un banano, ora poche baracche fatte di fango e legno che costituiscono un villaggio di anime abbandonate in un incrocio di strade polverose, ora distese di sabbia e steppa che si perdono nell’Orizzonte ondulate e irregolari, ora un gruppo di figure spettrali che spezzano il bagliore tenue dell’unico lampione di un villaggio, e, nell’istante di osservazione che un passaggio furtivo concede, sembrano mute e immobili, come se aspettassero l’ordine o il permesso di muoversi da parte di una qualche divinità demoniaca che però non appare mai.

Si susseguono una notte e un’alba, e dopo aver attraversato gli Stati di Rio de Janeiro e di Spirito Santo, si valica il confine dello Stato di Bahia. Itamarajá è un paese che si arrampica sulle colline come le favelas di Rio mezzo secolo fa: baracche di fango e legno ben distanziate l’una dall’altra – al contrario di delle case di mattoni dell’odierna Rio, attorcigliate l’una sopra e dentro l’altra –  si arrampicano sulle colline di un terreno agricolo che ha il volto segnato dagli antichi e dagli attuali latifondi. Una serie di scalinate facilita il risalire le colline, il sole schiaccia di peso impietoso i tetti, le scalinate, le colline e le teste dei bambini, dei  contadini, degli allevatori di  buoi e degli addestratori di cavalli. L’acqua giunge alle case passando da tubi contaminati da vermi e batteri dopo essere stata raccolta nei piccoli serbatoi di amianto, e ci si può immaginare che in buona parte svanisca in vapore durante il tragitto, prima di aver inumidito le labbra secche di un volto dalla pelle scura, tormentata dal caldo torrido. Proseguendo, le baracche di favela cedono spazio agli esercizi commerciali e alle case di cemento degli esponenti del ceto medio di Itamarajá, dove la vita e la morte si  avvicendano attorno ad una piazza polverosa e ad un capannone che accoglie gli autobus provenienti da sud.

Il tragitto verso un luogo lontano, Caraiva, passa attraverso a due grossi paesi di commercio e turismo: Eunápolis e Porto Seguro. Qui, vicino a un nuovo  tramonto, l’autobus si  ferma e, dopo venti ore di viaggio, gli abitanti, i commercianti e i turisti scendono e, dopo essersi sistemati, possono distendersi in una passeggiata sul lungomare: una larga area pedonale delimitata da una serie di case a schiera basse e strette, le facciate delle quali, ognuna di un colore vivo diverso, sono composte da una porta e una finestra e adattate per fare da agenzia di turismo, ristorante e negozio. Dal lato opposto, baracche ambulanti vendono cibo, alcol e manufatti di legno: i più recenti inespressivi testimoni di una tradizione antica, cancellata dal genocidio dei corpi e delle culture, pallide imitazioni di  una realtà ormai sconosciuta: chi fabbrica, chi vende e chi compra è il discendente di chi, in un’altra epoca, ha massacrato e distrutto.

Il viaggio per Caraiva è ancora lungo: la distanza da Porto Seguro sarebbe breve se la si  percorresse con un’automobile in buono stato su una strada europea, ma, in questo caso, per continuare la ricerca di un luogo che porti in sé il ricordo delle sue origini, è necessario fare ancora tappa ad Arraial d’Ajuda dopo aver guadato un fiume e dopo aver aspettato, approdati sull’altra riva, che un autobus arrugginito parta per percorrere in quattro ore sessanta chilometri di una strada di polvere, buche, sassi e ponti di legno e pietra, per fare una fermata presso un altro luogo turistico, Trancoso, per poi ricominciare il viaggio ora in mezzo alla sabbia, ora attraverso le fronde di arbusti che insinuano i loro rami e le loro foglie nei finestrini lasciati aperti perché un soffio di vento lenisca l’afa; insinuano le loro braccia e le loro dita, gli alberi che circondano l’autobus, invitando i passeggeri a fermarsi in un luogo selvaggio, in compagnia degli insetti che, senza lasciarsi vedere, riempiono la sfera del sonoro con grida raccapriccianti, e degli uccelli che si lasciano vedere quando la foresta fitta scompare in una distesa di  steppa, ondulata e deserta, interrotta dai pascoli di bufali e cavalli che trovano conforto dal caldo impietoso stendendosi negli acquitrini di rivoli paludosi; i corpi degli avvoltoi dei quali la vista era impedita dagli alberi ora dispiegano le ali per lasciarsi trasportare da quel vento che da millenni si insinua e ulula tra le fronde; quelle grida, quei voli e quegli ululati, l’invadenza inesorabile della polvere e il camminare stanco dei  cavalli, le costole e il teschio di questi che segnano sentieri sulla pelle cadente del loro costato e del loro muso allungato, i loro occhi spenti e le ginocchia sporgenti e graffiate di grumi di sangue nel quale fanno nido le mosche, sono le tracce di un bagliore tenue che viene da lontano, sono l’eco di un mondo perduto.

Il ritrovamento di un mondo perduto dovrebbe essere la ricompensa di un lungo viaggio che ti  porta nella località Caraiva dopo aver lasciato un autobus scassato e arrugginito e dopo aver attraversato ancora un fiume, questa volta su una barca di legno guidata da un uomo dalla pelle marrone scuro e dai riflessi rossi del mogano. Approdati sull’altra riva un bambino guida un cavallo e un altro si offre di accompagnarti a cercare una sistemazione. Caraiva è un villaggio fondato sulla foce di un fiume e oggi è composto da una striscia di terraferma delimitata da una parte dal fiume stesso e dall’altra dal mare aperto, ed è quindi costituito da poche strade di sabbia. Su questi sentieri, che si percorrono solo a piedi o a cavallo, si affacciano altri negozi per turisti, altro artigianato che offre prodotti identici a quelli di Porto Seguro, altri ristoranti che di notte diventano discoteche, e la musica, gli  strumenti e le luci sono gli stessi che trovi nelle grandi città, da Rio de Janeiro a São Paolo. Chi vi abita e chi vi lavora sono bambini e adulti che, almeno in alta stagione, sono al servizio dei turisti: sono guide, camerieri, venditori ambulanti e pescatori. La pelle è scura, dai riflessi che rimandano al colore di  chi è stato massacrato, ma i lineamenti sono quelli europei. La storia di questi paesi e villaggi, come Trancoso, Arraial d’Ajuda, Porto Seguro e Caraiva, è sempre la stessa: prima della sedicente scoperta dei primi decenni del cinquecento erano altre le popolazioni; dopo, il primo rito cristiano è stato eseguito, la prima Chiesa cattolica è stata costruita, e oggi ognuno di  questi paesi ha una piazza nel suo cuore e nel mezzo di ciascuno dei cuori è conficcata una Croce. Così le popolazioni di una volta sono passate dall’essere composte da milioni di esseri umani a centinaia. I portoghesi e gli spagnoli (come gli  inglesi e gli olandesi nell’America del Nord) si sono insediati e sono diventati essi stessi, con il passare dei secoli, popolazione nativa; sono diventati artigiani, addestratori di  cavalli, allevatori di buoi e pescatori. Gli spiriti degli abitanti  di prima si sono liberati del loro corpo martoriato e ucciso, e si  sono trasferiti in quello degli invasori; hanno ricominciato la loro vita e la loro attività. Per un certo periodo sono stati dimenticati e abbandonati da un’altra parte di umanità; poi, con il passare di altri secoli, a fine ottocento o poco dopo la metà del novecento a seconda dei casi, è avvenuta una nuova sedicente scoperta e i villaggi sono stati occupati da chi credeva in un mondo nel quale la fantasia fosse al potere, ma che poi ha mantenuto il potere rinunciando alla fantasia. Così i pescatori, gli  allevatori e i contadini sono diventati i poveri di una nuova società e si sono messi al servizio di chi, periodicamente stanchi del rumore, dell’inquinamento e dell’alienazione imposti dagli uffici e dalle metropoli, percorrono un lungo viaggio in mezzo alla foresta, alla steppa e alla polvere per approdare in un luogo che considerano incontaminato, e così, questo luogo, incontaminato smette di essere. Oppure sono stati i contadini e i pescatori ad abbandonare le loro terre, snaturandosi, e si sono  trasferiti nelle città, hanno fuso la loro etnia a quella dei  negri che già qui vivevano, ai margini delle città e delle attività delle quali sono stati e continuano ad essere al servizio come schiavi; in qualche appezzamento di terreno che ai padroni non servivano, su un lato di una collina e ai confini della foresta, chi arrivava dalle campagne e dalle rive dei fiumi e dei mari si è isolato o è stato isolato, è stato di  nuovo abbandonato e dimenticato; così sono nati i ghetti che in America Latina si chiamano favelas. Una parte di mondo emargina un’altra parte di mondo, ma i lineamenti sono gli stessi: sono gli  stessi portoghesi, spagnoli, inglesi, olandesi, italiani e francesi che emarginano sé stessi. Una storia che si ripete all’infinito, un continuo avvicendarsi di scoperte e riscoperte che seguono l’abbandono, le stragi e i genocidi culturali; al centro del palco una Croce che smette di essere simbolo di redenzione e diventa simbolo di morte e di crudele vittoria.

Continua (verso la fine di questa esperienza)…

  1. […] per le strade di sabbia di Caraiva dopo aver percorso un lungo viaggio, il passo è faticoso: si sente nelle gambe e nei pensieri il peso del genocidio dei corpi e delle […]

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