un impiegato in favela

Il gioco delle tre carte

In Finestra sulla favela Rocinha, Oltre la favela Rocinha on 5 agosto 2012 at 22:20

Riflettendo sul processo di pacificazione, quel processo che ha visto gli eserciti della BOPE entrare in alcune delle favelas di Rio de Janeiro con l’etichetta di UPP – unidade de policia pacificadora – (la BOPE è un corpo di polizia militare specializzato; si veda anche il film Tropa d’Elite) per porre fine, in quelle favelas, alla fase del potere parallelo degli eserciti del narcotraffico, durata almeno un paio di decenni; viene da chiedersi che fine abbiano fatto i narcotrafficanti, dato che solo una minima parte di questi è stata catturata.

Il gioco delle tre carte

Si dice che la dirigenza si sia trasferita man mano nelle altre favelas non ancora pacificate, per poi spostarsi ancora mentre venivano occupate, e che la manovalanza, in particolare quella incensurata, sia invece rimasta dov’era, riciclandosi dove possibile in mestieri legali. La risposta è plausibile ma sembra spiegare solo una parte: se si fa eccezione per il crack, che è stato proibito dai narcotrafficanti stessi nelle favelas di rispettivo dominio già da prima della pacificazione, perché i suoi effetti sono stati giudicati da questi come sconvenienti per la stabilità dell’ordine pubblico e quindi del loro potere, lo spaccio e il consumo di sostanze stupefacenti illegali resta attivo sia nelle favelas che nelle zone del centro e del turismo di massa; inoltre, storicamente ciascuna favela è stata roccaforte di un gruppo specifico in concorrenza con gli altri, pertanto appare improbabile l’ipotesi di alleanze tra i vari gruppi. È possibile che si convinca di aver trovato il pezzo di risposta mancante chi, uscendo dalla favela dove vive e lavora per recarsi a Lapa ad assistere al concerto dei Ponto do Equilibrio, gruppo brasiliano reggae che ha composto la canzone che ha ispirato il titolo di questo diario online, si ritrova ad assistere al tentativo di furto alle persone sbagliate ad opera di un ragazzino.

La serata è frequentata da una folla allegra, elegante ed internazionale; i baracchini, montati con un semplice gazebo e le bottiglie in mostra sul banco come nelle feste di favela, vendono caipirinha, cerveja e churrascos; la scenografia della festa è affascinante, con la proiezione di luci colorate sulle pareti dell’antico acquedotto di Lapa, innalzato su due lunghe file di archi costruite una sopra all’altra, che, fino a prima di un tragico incidente, faceva anche da ponte per un tram stile portoghese.

L’opera architettonica perde di interesse e lo sguardo deve abbassarsi dalla cima degli archi colorati all’altezza degli uomini, se senti la folla sussultare in modo scomposto per evitare gli spintoni di un ragazzo, canottiera rossa e pantaloni corti,  che corre disperato e, dopo pochi secondi, vedi dietro di lui una decina di uomini robusti in fila, vestiti di abiti tra loro simili ma non identici, tutti in camicia bianca e pantaloni neri. Perdi l’interesse per i churrascos, per le luci e per il concerto se vedi il ragazzino tornare su suoi passi, stretto sotto alle ascelle dalle braccia di uno degli uomini in camicia, la schiena del ragazzo appoggiata sul petto dell’uomo, che lo trascina camminando all’indietro facendogli strisciare i piedi per terra, gli occhi del ragazzo sbarrati e opachi, la bocca mezza aperta a sforzarsi di far uscire una parola che gli resta strozzata in gola, la maglietta rossa strappata lascia intravedere la sua magrezza. Si dice in giro che abbia provato a rubare un cellulare alle persone sbagliate. Ti guardi attorno e, nonostante l’evento sia affollato, nella larga piazza, non vedi un solo agente della polizia. In favela ce ne sono in ogni angolo, con la mano appoggiata al manico della pistola e i fucili al collo; quando passano in auto appoggiano la canna del fucile fuori dal finestrino, che resta quindi ad altezza d’uomo. Qui, sotto gli archi di Lapa, questa sera, di agenti della polizia non ce ne sono, e il ragazzino – uno di quelli che giocano e ridono in favela – ormai l’hai perso di vista. Vedi passare le ultime camicie bianche; la folla si ricuce nel telo a tinta unita che già prima ricopriva la piazza in modo uniforme, gli sguardi delle persone non hanno colore: non è la prima volta che assistono ad uno di questi episodi.

Prendi coraggio per far proseguire la serata ma ti allontani dal concerto, procedendo sul viale gremito di gente e di locali con i tavolini e la musica a tutto volume, dal samba, alla disco, al rock. Per strada ti imbatti con una manifestazione di dieci quindici persone che inneggiano al loro candidato alle prossime elezioni comunali, per una Rio migliore. Imbocchi una traversa e lo scenario cambia; se ti senti inseguito da un gruppo di ragazzini, devi accelerare il passo, per arrivare un un altro luogo affollato, dove vedi la prima coppia di poliziotti della serata; pensi che se fossi stato un narcotrafficante alle prese con il processo di pacificazione, avresti lasciato l’esercito della BOPE in mezzo alle baracche fatiscenti delle favelas, a sorvegliare i bambini e a perquisire i ragazzini e, senza esitazioni, ti saresti trasferito in centro, più vicino ai luoghi di maggiore consumo di sostanze stupefacenti, dove le case sono belle e colorate. Se fossi stato un narcotrafficante, di questi tempi ti saresti trasferito senza esitazioni nei luoghi che le forze dell’ordine, impegnate a pacificare le favelas, hanno affidato alla giustizia sommaria di gruppi incamiciati.

Torni da Lapa senza aver ascoltato quella canzone che ti invita a farlo, ma la finestra sulla favela sai di  averla aperta lo stesso se, sul van che ti riporta in Rocinha, trovi gente povera e dignitosa che ride, e ti senti al sicuro.

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