un impiegato in favela

La finestra riapre, tra poco

Ultima alba a Ponte Lambro, di nuovo, verso un’altra riva

Questa mattina ho assistito alla mia ultima alba al quartiere Ponte Lambro di Milano, ultima per un po’, un anno, una stagione diciamo. A dirla tutta, può darsi che domattina ne veda un’altra, mentre sarò sul taxi per l’aeroporto. Da qui decollerò verso la favela Rocinha, da dove sono stato assente per questi sette mesi milanesi. Comunque questa mattina mi sono svegliato molto presto e come ho aperto gli occhi mi hanno dato il buongiorno una serie di raggi di luce rossi con sfumature violacee che si infiltravano tra le fessure delle tapparelle della sala e della cucina (in effetti, è il lato di casa rivolto a est). Mi alzo e vado in sala in stato di dormiveglia, e non ho le forze di alzare una tapparella per vedere intero il sole che sorge, ma, sporgendomi appena, ora da una fessura ora da un’altra, ne intuisco la forma e il colore: un cerchio di fuoco vivo già domina il cielo vicino alla linea dell’orizzonte, che da queste parti le Alpi rendono frastagliata. Gli scaffali e gli armadi di casa sono vuoti in questo ultimo giorno italiano, i miei vestiti giacciono in valigia, è metà agosto e la città è deserta, e mi sembra di essere il solitario testimone di uno spettacolo meraviglioso, un dono di  arrivederci regalatomi dal Ponte Lambro.

Mi chiamo Marco Loiodice (o forse dovrei dire Marco Francesco Renato, e il perché lo spiegherò tra poche righe).

C’era una volta un impiegato

Da fine giugno 2012 a gennaio 2013 ho vissuto e lavorato nella favela Rocinha di Rio de Janeiro e in questi mesi ho avuto l’onore di cominciare a conoscere la favela e il suo popolo, e di collaborare con la Onlus Il Sorriso dei miei Bimbi, che  in favela Rocinha promuove progetti di educazione infantile e formazione giovanile, e lo fa da oltre undici anni. In questo periodo ho aperto questo blog per condividere che cos’è una favela sudamericana e per raccontare le sue storie, se pure con il filtro della mia personale interpretazione, inevitabile per chi ha passato tutta la sua vita in un luogo distante in tutti i sensi a occuparsi di tutt’altro, inevitabile per un ex-impiegato occidentale. Così mi presentavo su questo blog all’inizio di questa esperienza: “mi sono laureato in ingegneria elettronica, ho fatto per sette anni il consulente nel campo dell’Information Technology, con Accenture, multinazionale di consulenza, e per più di due anni ho rivestito il ruolo di Project Manager per Mediaset, sempre nell’ambito dei sistemi informatici aziendali. A fine 2011 ho fatto una scelta che mi ha portato a lasciare questo tipo di lavoro – da impiegato, a tempo indeterminato, per scopi ultimi di profitto, peraltro di qualcun altro – e il mio ultimo giorno in ufficio, in questo tipo di ufficio, è stato venerdì 15 giugno 2012 e oggi mi ritrovo a vivere in Brasile e mi occupo di qualcosa di molto diverso, almeno per sei mesi. Approdato sull’altra riva dell’Atlantico, sto affrontando una nuova esperienza che ho cercato con consapevolezza, nella convinzione che ognuno di noi debba fare del suo meglio, tutti i giorni e tutte le ore del giorno, per avvicinarsi quanto più possibile all’ideale di una vita che, nel rispetto del prossimo, sia sempre libera; e che sia costantemente la libera espressione di ciò che ognuno di noi sente di essere nel suo profondo; in altre parole, parto per un luogo remoto e diverso, per provare ad essere, prima ancora che il cambiamento che voglio vedere nel mondo di tutti, quello che voglio vedere nel mio”.

Odissea burocratica

Sono passati sette mesi da quando sono tornato dalla favela perché nel frattempo, al fine  di ottenere un visto di  lavoro che consentirà una permanenza più lunga in Brasile, ho dovuto lottare contro la burocrazia brasiliana e quella italiana unite contro di me. Fatti fare il certificato penale dove sei residente, il certificato di laurea dove ti sei laureato, le referenze dove hai lavorato, il certificato di nascita dove sei nato, e poi portali a farli timbrare in prefettura, oppure in tribunale, o a farli autenticare in Comune, e poi portali a farli timbrare una seconda volta presso il Consolato del Brasile a Milano, oppure a Roma a seconda di dove hai fatto il documento. Fai la domanda al Ministero del Lavoro del Brasile, aspetta un po’. Per andare a ritirare il visto che ti  sarà stato concesso, devi presentarti di nuovo con tutti  questi documenti, timbrati e ri-timbrati, che in gran parte avrai dovuto rifare daccapo perché hanno una scadenza. Se i tuoi genitori hanno fatto l’innocente scelta di darti più nomi per accontentare tutti gli zii e i nonni, occhio che tutti i documenti abbiano gli stessi nomi: se nel certificato di nascita compare solo “Marco” e in tutti gli altri “Marco Francesco Renato” il  visto non ti  viene consegnato, perché i due nomi – diciamo così – diversi potrebbero appartenere a due persone diverse nate nello stesso giorno, nello stesso luogo, con gli stessi genitori (e due fratelli gemelli non possono avere un nome in comune, per legge). Allora non ti  rimane che prendere l’auto e fare 1.000 km notturni per presentarti finalmente di persona al sig. Miale, l’impiegato comunale dell’anagrafe Grottaglie (Taranto) che in questi mesi hai sentito per telefono per farti spedire i certificati di nascita e di fronte al quale improvvisamente ti trovi per chiedergli con tutta la cortesia che ti riesce di farti un altro certificato, ma questa volta con il nome giusto. Ma la cortesia qualche volta non è sufficiente. Non si può, dice il sig. Miale, che dopo aver studiato la situazione, svela l’arcano: Francesco e Renato sono separati da Marco da una virgola, e per questo, in realtà, non contano niente. Anzi, a dirla tutta, io sono sempre stato convinto di chiamarmi anche Mario: Marco Francesco Renato Mario. Ma Mario se lo dimenticano tutti perché è stato scritto a capo, sul foglio dell’anagrafe, e gli impiegati del Comune si fermano sempre alla prima  riga. Non lo so perché, non gliel’ho chiesto. Comunque, sta di  fatto che dopo che sono nato, quando hanno registrato la mia residenza, si sono dimenticati la virgola, oltre che Mario. Così, alle soglie dei 35 anni, scopri che ti chiami proprio Marco, solo Marco, e che un certo Marco Francesco Renato che non esiste si è laureato, ha lavorato in Accenture e in Mediaset, e ha fatto la richiesta di un visto di lavoro in Brasile.

Per la cronaca, ho risolto facendomi fare un documento, dal gentilissimo sig. Miale che attestasse che Marco e Marco Francesco Renato sono la stessa persona, cioè io. Questa volta al Consolato del Brasile ci sono cascati, non prima di avermi intimato di  risolvere la mia situazione perché in Brasile fare in modo che nei tuoi documenti compaiano due nomi diversi è un reato molto grave e si va in galera.

Questa esperienza non fa che rafforzare la mia convinzione personale – mi scuserà, il lettore, se mi concedo di condividerla, ciò che non farò più nel prosieguo del blog – che i confini nazionali o politici di qualsiasi tipo debbano essere abbattuti perché non sono che strumenti autoreferenziali del potere per limitare la libertà – che deve sempre finire dove comincia quella dell’altro, chiaro – di vivere dove e come si preferisce, magari facendo  qualche esperimento per capire dove ci si trova meglio. Questo penso, e lo penso in riferimento a tutte le provenienze, a tutte le destinazioni e a tutti i tipi di  confine, compresi i  muri, fisici o virtuali che siano, innalzati dal pregiudizio, dalla discriminazione sociale ed etnica, anch’essi per agevolare trame di potere e sempre contro il popolo, i muri che cingono i ghetti dell’era contemporanea, che in Sudamerica si  chiamano favelas. Anche per questo nei prossimi tempi “la finestra sulla favela” sarà aperta di nuovo e chi vorrà fare la conoscenza della gente e delle storie della favela Rocinha, potrà affacciarvisi. A meno che la polizia brasiliana non mi arresti appena atterrato a Rio a causa dei miei nomi.

finestra sulla favela (foto di antonio spirito)

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