Da Finestra sulla terra, di Un ricercatore in favela
Il mio nome è Ahmed vivo a Freetown, la capitale, ha circa un milione di abitanti. Vivo in una casa che mi sono costruito io in mezzo alle altre del quartiere. L’ho costruita dove ho trovato spazio con il poco materiale che sono riuscito a comperare e con tutto il resto che ho potuto recuperare qua e là.
Mi chiamo Abu, vivo a Bumba, un villaggio nella provincia nord a 25 miglia da Kambia, la città principale del distretto, in un’area rurale tra savana e foresta tropicale. La mia comunità è composta da una trentina di persone, tutte Limba come me. Casa mia l’ho costruita io con l’aiuto di familiari e vicini. L’ho fatta come tutte le altre del villaggio usando terra e pali di legno per le pareti, erba secca per il tetto. Solo in un paio di punti ho usato anche qualche blocco preparato con la sabbia presa al fiume.
Ahmed: in città ci sono comodità, c’è l’elettricità e il pozzo dell’acqua. C’è anche il mercato dove si può trovare tutto quello che serve: cibo, stoffe, prodotti agricoli provenienti dalle province, materiali. Ma servono i soldi per comperarli e quelli non è facile trovarli. Io di lavoro rompo col martello massi di granito grandi come conomeri per ricavare sassi piccoli come chicchi di caffè. Poi li vendo ai big men che li usano per la casa, come ghiaino.
Abu: nel villaggio non c’è l’elettricità, viviamo seguendo le fasi del sole e prendiamo l’acqua giù al fiume. Non c’è il mercato e nemmeno i negozi. Siamo quasi tutti contadini e si mangia quello che coltiviamo. Ci costruiamo utensili, attrezzi e quello che ci serve con i materiali che troviamo nella foresta. Ogni tanto uno di noi va fino in città per ottenere il resto che manca, ma solo ogni tanto perchè la città è distante, difficile da raggiungere e il trasporto costa soldi.
Ahmed: in città per spostarsi si va a piedi oppure si prende il trasporto pubblico: taxi, poda poda o l’okada. La città ne è piena perchè pochi hanno un veicolo. La strada però è pericolosa, ci sono sempre incidenti perché i veicoli sono vecchi, scassati, rattoppati, carichi fino all’orlo, e non ci sono regole di guida. Gli autisti sono indisciplinati e qualcuno corre anche un po’ troppo. Se capita di avere un incidente è un problema perché gli ospedali governativi sono pochi e lontani, non ci sono ambulanze, e spesso nemmeno i dottori. Qui tante persone muoiono a causa di incidenti stradali.
Abu: nel villaggio non c’è trasporto pubblico, il villaggio è isolato e lontano dalla città. Solo ogni tanto passa un okada. Non ci si muove quasi mai, nessuno ha macchine o moto, e per il trasporto servono i soldi. La strada che porta al villaggio è brutta, solo terra e buche e nella stagione delle piogge diventa impraticabile. Quando qualcuno si ammala di malaria o tifo, o si fa male durante il lavoro, o viene morso da qualche animale nella foresta rimane a letto e aspetta sperando che passi. A volte passa a volte no.
Ahmed: durante la stagione delle piogge il quartiere si allaga e anche in casa entra acqua. Le piogge sono violente e continue, l’acqua entra dalle vie del quartiere, dai buchi della lamiera che cerco di rattoppare con tutto quello che recupero o che trovo a portata di mano. Le strade diventano fiumi che portano via tutto e quelle di terra battuta riversano fango tra le abitazioni. Ogni tanto, durante i temporali più intensi, nel quartiere qualche casa non resiste e cede abbattuta dal vento, dalla pioggia o dal fango.
Abu: durante i mesi delle piogge il villaggio rimane isolato perché la via di collegamento si allaga. Le piogge consumano i muri di terra sgretolandoli poco a poco e il vento a volte danneggia i tetti di paglia. Il pavimento è di terra, un po’ di pioggia cola sempre dal soffitto e la casa diventa umida. Quando i temporali sono intensi anche le galline, le capre e i cani vengono in casa a ripararsi. A fine stagione occorre riparare i danni. D’altra parte durante la stagione secca l’acqua del fiume si ritira ed è più sporca. Durante questi periodi di secca sia io che altri del villaggio ci ammaliamo più spesso.
Ahmed: durante ebola nel quartiere diversi si sono ammalati. Sono venuti degli opoto vestiti con tute strane a prenderli. Spruzzavano disinfettante dappertutto e bruciavano i loro materassi. Ci hanno detto di rimanere chiusi in casa e di non toccare nessuno. Ma nel quartiere siamo in tanti, viviamo l’uno vicino all’altro e avevo bisogno di uscire per lavorare e rifornirmi al mercato. All’inizio non li ascoltavo ma poi si ammalava sempre più gente, anche alcuni che conoscevo e la maggiorparte non è più tornata. Allora ho cominciato anche io a fare quello che dicevano. Grazie a dio ora ebola è passata.
Abu: durante la recente epidemia diversi del villaggio si sono ammalati, alcuni sono morti. All’inizio li vedevo ammalarsi e morire misteriosamente a ripetizione. Non era una delle solite febbri che conosciamo, era diversa. Nessuno sapeva cosa fosse, nessuno sapeva cosa fare, nessuno sapeva nulla, nessuno arrivava dalla città ed eravamo isolati perché pioveva. Abbiamo pensato a una maledizione venuta dal cielo. Ho avuto molta paura, non solo io anche gli altri. Per fortuna non mi sono ammalato, e nemmeno i miei familiari. Ma nel villaggio più di dieci sono morti. Poi sono arrivati a dirci che era una malattia che si chiama ebola, hanno portato via i morti, bruciato le loro cose e ci hanno messo in quarantena. Grazie a dio ora ebola è finita.
Ahmed: tra poco è il 25. E’ bello il Natale, in città tutti lo celebrano e ci sono grandi feste sulla spiaggia o su in collina. Io andrò in chiesa la mattina con mia moglie e i bambini, metteremo il vestito da festa. Poi prepareremo il riso con le foglie cassava e festeggeremo assieme. Happy Christmas anche a lei, sir.
Abu: non so esattamente che giorno è oggi. Nel villaggio i giorni sono tutti uguali: lunedì, martedì, sabato, domenica, giorni di festa, non c’è differenza. È quasi Natale? Di già? Ah, allora Happy Christmas sir, God bless you.
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