un impiegato in favela

L’ultimo tramonto e Magdalene (l’ultimo racconto, per la quarta volta: parole)

In Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno on 7 novembre 2015 at 14:44

Da Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno, di Un impiegato in favela

L’ultimo racconto de “Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno” è un racconto lungo. Il tempo di lettura non dovrebbe superare gli otto minuti se scorri veloce, dodici minuti se te la prendi con calma, quindici secondi se guardi solo i titoli dei paragrafi.

Questa è la prima parte, a parole, dell’ultimo racconto de “Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno”, pubblicato il 7 novembre 2015 per festeggiare la fine dell’epidemia di ebola in Sierra Leone. Seguendo questo link invece si accede alla seconda parte del racconto, la galleria fotografica di tutti i cieli della Sierra Leone, pubblicata l’8 novembre 2015, il primo giorno di ufficiale libertà della Sierra Leone dall’ebola.

Magdalene

Magdalene

– Ciao come ti chiami?

– Mh. Non ha importanza.

– Dai, come ti chiami?

– Marco, mi chiamo Marco.

– Marco? Io mi chiamo Magdalene. M&M, come i cioccolatini!

– Sì, bene. Però davvero, grazie.

– Posso sedermi qui al tavolo con te?

– Ecco, appunto, no. Mi spiace, non è possibile.

– Ma siamo in spiaggia, sei da solo, io sono sola!

– Non è il caso.

– Vendo mele. Avevo voglia di fare una pausa e due chiacchiere. Non ti ho mica invitato a fare sesso.

– Scusa?… Scusa, quanti anni hai?

– Dodici.

– Ecco appunto, Magdalene, come ti salta per la testa? Il problema è che lo so come ti salta per la testa. Lascia stare.

– Magdalene. si scrive M A G D A L E N E. Si pronuncia Magdalin, non Magdalen. Forse al tuo Paese si dice Magdalen. Qui in Sierra Leone si dice Magdalin. Di dove sei?

– Italia…

– Italia? Che bello!

– Conosci?

– Ho un’amica che viene dall’Italia, Valentina: lavora al centro per i bambini laggiù all’inizio della strada. Mi ha insegnato a scrivere. M A G D A L E N E… Lavoro, vendo mele e abito qui. Volevo fare due chiacchiere, tutto qua.

– Conosci Valentina? Va bene dai… siediti. Facciamo due chiacchiere.

– Grazie. Eccoci. Perché sei qui, Marco? Che fai? Non sei delle miniere, vero?

– No no, niente diamanti. Mi sto rilassando, sono i miei ultimi giorni in Sierra Leone. Dopo mesi di pioggia è uscita una giornata di sole. Mi piace guardare il sole che scende sul mare e poi la luna che si alza e brilla sulle onde.

– Che ci fai in Sierra Leone? Ci sei stato per tanto tempo?

L’alba

– Quasi un anno. Iniziò tutto con un’alba, Magdalene. Belli i cieli, in Sierra Leone, all’alba e al tramonto, vero? Durante la stagione delle piogge, poi, le nuvole creano ogni giorno una composizione diversa.

– Sì, vero, belli. Io vivo qui, sulla spiaggia, e ogni mattina all’alba mi alzo e nuoto lasciandomela alle spalle. Guardo sempre il cielo.

– Era novembre e all’alba un minibus venne a prendermi davanti alla casa dove avevo passato la prima di una lunga serie di notti non sempre facili in Sierra Leone. Era novembre, novembre del 2014, nel pieno dei tempi dell’ebola, quando si registravano più di cento nuovi casi di infezioni al giorno, e le morti ufficiali erano centinaia, e poi diventarono migliaia, e chissà quante erano già quelle che nessuno potrà mai conoscere. Be’, quel minibus stava accompagnando un nugolo di dottori, infermieri, tecnici di laboratorio e logisti nel centro di cura di malati d’ebola che stava a Lakka.

– Sì, qua dietro. Me lo ricordo bene. All’inizio avevamo paura ad avvicinarci a quel posto. Dopo chi si sentiva la febbre ci andava subito o ci veniva mandato. Per fortuna io non ho mai dovuto avvicinarmici, ma sono stata fortunata: un mio cuginetto è morto lì, anche una mia zia, e una mia cugina è stata curata ed è sopravvissuta.

– Proprio così. Quando sono arrivato il centro era già funzionante e funzionava bene. A novembre era già il tempo in cui la gente aspettava fuori dal cancello. Stivali, maglietta, pantaloni banchi di cotone. Ci si cambiava al mattino e poi di nuovo la sera. Per entrare in zona rossa, stivali, controllare che non siano bucati, tutta di protezione totale, guanti, no, i guanti per ultimi, grembiule, maschera, guanti, gli altri guanti. Alle sette arrivavano i dottori e gli infermieri del turno di notte. Faceva caldo, non pioveva mai. Il primo giorno, il giorno di quell’alba, un ragazzo giovane, che poi sarebbe diventato un amico, mi insegnò che bisogna sempre lavarsi le mani: “quando non ti senti più l’odore del cloro tra le dita, quello è il momento di farti un’altra passata con la clorina”. Poi ci fu Suliman Kamara, il bimbo di tre anni il corpo del quale fui io ad accomodare nel primo strato di protezione, e a passare con la clorina, e ad avvolgere nel secondo strato di protezione. Aveva una camiciola beige con le vele colorate e i pantaloncini; sembrava un bambolotto. Poi ci furono gli altri, adulti e bambini. A quel tempo, lo sguardo al cielo, lo alzavamo raramente, non avevamo tempo. Solo qualche volta ci riusciva di guardare in alto, e ci mettevamo a guardare il volo delle aquile e dei falchi, che giocavano tra loro sospesi in un volo immobile.

– Piace molto anche a me, il volo dei falchi, ma ho cominciato ad apprezzarlo dopo che mi hanno insegnato a scrivere. Prima di allora mi lasciava indifferente, neanche mi accorgevo che esisteva.

Alba

Il volo immobile

– Avevamo poco tempo. Dopo abbiamo aperto il centro grande, quello a Goderich. Vedi queste macchie sui pantaloni che indosso? Queste macchie viola. È stata la clorina a scolorire il nero dei pantaloni, il ricordo indelebile di quel giorno in cui ero in zona rossa senza tuta di protezione perché non era ancora attiva. Stavo testando la clorina, che era così forte che a un certo punto non la si sentiva più. Mi accorsi che scoloriva i pantaloni ed ebbi la certezza che il cloro nell’acqua c’era e che l’impianto idraulico funzionava. Mi voltai e dal corridoio in fondo stava giungendo la barella con il primo paziente del centro da cento posti letto. Uscii di corsa e la zona rossa fu zona rossa. Nelle ore a seguire arrivarono molte ambulanze, e dopo, verso fine dicembre, le ambulanze cominciarono a calare. A febbraio ci furono giornate in cui avevamo un solo paziente, nel centro di Goderich. A quei tempi riuscivamo a tornare a casa prima del tramonto e a soffermare lo sguardo sul volo degli aironi, li hai visti mai?, non so nemmeno se siano proprio aironi e per questo mi piace chiamarli quasi-aironi, quelli che al mattino volano verso l’alba e di sera verso il tramonto, tutti i giorni, indifferenti alle nostre epidemie, come se nulla di nuovo stesse accadendo. A metà febbraio tornai a casa. Ricordo il giorno che passai per la spiaggia di Lumley per andare a prendere il traghetto che mi avrebbe portato all’aeroporto. I pescatori tiravano su le reti; un bimbo correva stringendo forte tra le braccia un pesce grondante di sangue e acqua marina grande quanto l’intero suo petto. Il pensiero si volse a quel pescatore che avevo visto all’ingresso del centro di Lakka il giorno prima di partire: aveva la faccia da ebola.

– Mi ricordo quando i pescatori sbarcarono ad Aberdeen con quel corpo e con quell’uomo con la febbre alta. Il coprifuoco era stato rilassato poco prima e a noi ci prese la paura che tutto stesse per ricominciare da capo.

– Sì, e di questi colpi di coda l’epidemia ne ebbe ancora nei mesi successivi, e così l’epidemia è durata molto più a lungo di quanto avevamo pensato. Adesso sta per finire. La Sierra Leone sarà dichiarata libera dall’ebola sabato 7 novembre. Finirà di certo. La faranno finire.

– Che intendi con “la faranno finire”?

– Il virus resta nella foresta e fino a che ci sarà un cacciatore che si porterà sulle spalle la carcassa di un animale malato, fino a che le misure igieniche di questa città saranno così carenti, con le fogne a cielo aperto, le discariche a ridosso del mare, mercati in mezzo a rifiuti e ratti, ci sarà sempre almeno un caso. Solo che nessuno lo saprà, soprattutto se ciò avverrà in un villaggio là in fondo, in area rurale o in mezzo alla foresta. Poi si spera che il contagio non si espanda ma si può solo sperare. Il problema di fondo è l’abbandono, e quello resta. Se quell’ipotetico nuovo caso avvenisse nei prossimi giorni, se se anche qualcuno se ne accorgesse, non è detto che avrebbe voglia di renderlo pubblico.

– Come fu tornare a casa, in Italia dopo quei primi mesi?

Il volo immobile

Cielo grigio scuro

– Ci fu un bel matrimonio di amici e quel giorno il cielo era azzurro. Ma non furono sempre momenti sereni. A casa mia nessuno sapeva niente del virus, e non bastava che riferissi qualcosa che avevo imparato. Tutti avevano paura, una paura oscura, grigia, come nebbia. La gente se la prendeva con chiunque venisse dall’Africa: dicevano che poteva portare l’ebola. Pure a me è toccato ricevere strane minacce, alle quali ho provato a rispondere a mio modo. Una volta, una bimba non è stata lasciata entrare a scuola. Non veniva neanche dalla Sierra Leone o dalla Guinea o dalla Liberia ma dal Kenya, che – tu lo sai Magdalene, vero? – sta proprio dall’altra parte dell’Africa, dove l’ebola non si è mai vista.

– Per questo sei tornato in Sierra Leone?

– No, non per questo. Ho avuto la possibilità di tornare a seguire un progetto di protezione dell’infanzia colpita dall’epidemia. Abbiamo lavorato laggiù in quelle comunità dove durante l’ebola la gente per molto tempo è stata lasciata morire per strada, in quelle comunità che alcuni vorrebbero fossero cancellate.

– Chi vorrebbe che fossero cancellate?

Cielo grigio scuro

Cielo nero

– Adesso sono stanco, Magdalene. Non è stato facile. Ho visto molti cieli diversi. È presto per giudicare, ma non è sempre stato facile.

– Mi dispiace. Perché?

– Sei bimba e da queste parti alla tua età sei ormai da considerare una giovane donna. Te lo racconterò, sono sicuro che capirai e che, anzi, già capisci meglio di me. Ci sono certi esponenti della classe politica che, anche in un contesto come quello dell’epidemia, non fanno altro che pensare al loro rendiconto. Tu stai parlando di come proteggere l’infanzia? Di che misure prendere per prevenire l’ebola? Loro ti chiedono che cosa ci guadagnano, che cosa puoi fare per loro, che donazioni puoi fare loro. Incontri certe persone che sono riconosciute come leader delle comunità e ti chiedono perché invece che promuovere i corsi di professionalizzazione previsti dal tuo progetto non incentivi le scuole private per i bambini più piccoli; ti sorprendi che siano così acuti e propositivi nella loro critica, fino a che non scopri che le scuole private per i bambini più piccoli sono di loro proprietà. Per non parlare di quella frase: “sei venuto qui da uomo?”. La conosci?

– Sì, la conosco. È la frase che usa chi decide gli appalti. Uomo è colui che viene con la busta con i soldi.

– Vedi? Dodici anni hai detto che hai? Lo sapevo che già capisci anche più di me. Intendiamoci, Magdalene, mi rendo conto che non è facile quando non hai niente. Così, quando per qualche motivo qualcuno arriva con qualcosa, come per esempio le organizzazioni che sono arrivate ad occuparsi dell’epidemia, questo qualcuno è subito oggetto di attenzioni. Non vorrei esagerare, ma credo di sapere che cosa c’è dietro ai saluti che ti rivolgono gli sconosciuti che incroci per strada, dietro quel “my friend”, dietro a quegli inviti a vedersi dopo il lavoro: non c’è la disinteressata gentilezza, lo spirito di accoglienza che qualche turista, qualche viaggiatore e anche qualche cooperante ingenuamente dice di ammirare quando torna a casa e racconta quanto sono carini gli abitanti di questo Paese; al contrario, dietro quei saluti c’è sempre il tentativo di ottenere qualcosa: lavoro, soldi, qualsiasi cosa; e tu sei quello che si presume abbia qualcosa da offrire, perché sei bianco. Ma non è tutto qui. Prendi gli orfanotrofi: rischi sempre che siano iniziative realizzate da persone che hanno capito che un orfanotrofio può attirare le attenzione delle ONG e di donatori di varia natura. Che fanno queste persone: vanno nelle province, là dove c’è solo la foresta e i villaggi non hanno strade, là dove non c’è elettricità, non ci sono scuole e se un villaggio sparisse per l’ebola o per altri motivi nessuno se ne accorgerebbe; là dove i bimbi tirano su da terra topi morti per giocarci e i Fullà vagano alla ricerca dell’acqua per il loro bestiame; vanno in quei luoghi, incontrano una famiglia e lanciano una bella proposta: “lasciami uno o due dei tuoi bambini, ti pago e avranno un futuro migliore”. Questi bambini raggiungeranno gli orfanotrofi che attireranno sostegno di vario genere. Nel frattempo, i bambini potranno essere mandati a lavorare e le bambine a prostituirsi, e quando non serviranno più potranno diventare carne buona per il traffico di organi. D’altra parte, se prendi misure per lo smantellamento di certi orfanotrofi, i bambini vanno a finire in famiglie costituite da un adulto e fino a dieci e più bambini: sono piccoli orfanotrofi non registrati dove possono innescarsi gli stessi meccanismi. Le bambine, più vulnerabili, facilmente resteranno incinte per la violenza del padrone di casa e dopo dovranno pure spostarsi alla ricerca di cure per loro stesse e per il bambino che si porteranno in grembo. È un Paese di bambini, è un popolo di bambini, forse è un intero Continente di bambini.

– Hai proprio una pessima opinione del nostro Paese, Marco

– Mi dispiace, Magdalene, te l’ho detto, sono stanco. Prendi con cautela le mie parole.

– Ma questa è l’Africa, Marco.

– No Magdalene, è qui che ti sbagli: questa non è l’Africa, questa è l’Europa.

– Come?

– Omertà, servilismo, sistema clientelare, corruzione, la smania del potere, tutti fenomeni d’importazione, tutto ciò è ben riconoscibile nella mia Europa. C’era una volta un portoghese, un opoto, che s’imbarcò per un viaggio alla ricerca di noce moscata e altre spezie, poi di nuovi sudditi, di nuovi adepti, poi di oro, diamanti e altri minerali; c’erano una volta un italiano, un inglese, un francese, un olandese, un belga e uno spagnolo che fecero altrettanto ed esportarono l’Europa.

– Eh? Cioè? Funziona così anche da voi?

– In modo più raffinato, più celato a volte, ma forse anche peggio di così.

– E perché ci torni allora, se non ti piace?

– Eh. È casa. Mal d’Europa.

– Quindi te ne vai così? Non ti è piaciuto proprio niente del mio Paese?

Cielo nero

Cielo rosso

– Sarebbe un problema tutto mio, se non avessi visto niente di buono. Al contrario, proprio perché il contesto è questo, ho provato profonda ammirazione per quei ragazzi, ex-bambini soldato, che adesso, cresciuti, hanno deciso di realizzare orfanotrofi sani, che non puntano a mantenere per sempre i bambini o a sfruttarli, ma ad indirizzarli verso famiglie dignitose, verso una vita propria, grazie alla scuola e ai corsi di professionalizzazione; mi sono piaciute quelle donne, quasi bimbe, che si sono prese in casa bimbi e bimbe rimasti orfani a causa dell’ebola e hanno tenuto duro e stanno tenendo duro per sfamare una bocca in più; mi è piaciuto constatare la capacità di lottare di quelle famiglie che vivono tra quattro mura fatte di lamiera e assi di legno, dal tetto improvvisato con un telo di plastica raccattato chissà dove per ripararsi dalla pioggia incessante, e quelle che hanno perso tutto durante l’epidemia, e poi ancora durante l’alluvione di settembre, e nonostante tutto trovano la forza di andare avanti; ho provato ammirazione per la squadra che ha lavorato con me in quest’ultimo progetto per esempio: undici giovani alcuni dei quali si sono fatti tutti i giorni per sei mesi due ore di traffico ad andare e due a tornare per andare a lavorare nel fango, sotto la pioggia, alla ricerca dei bambini e delle famiglie più vulnerabili. Spero che loro non cambino mai, che non diventino come gli altri. Gliel’ho anche detto.

– Che cosa gli hai detto?

Cielo rosso

Cielo azzurro

– Di restare dedicati al proprio lavoro, di restare onesti. Sarebbero speranza sia per casa loro che per casa nostra, sia per la Sierra Leone che per l’Italia per esempio, sia per l’Africa che per l’Europa. Alla fine del progetto mi hanno fatto regali preziosi, targhe di legno intagliate col mio nome e apprezzamenti. Ci hanno messo soldi del loro stipendio per questi regali; stipendio che – ti assicuro, Magdalene – non era da ricchi. Mi ha colpito una cosa che mi ha detto uno di loro quando è venuto a consegnarmi uno dei regali; mi ha detto: “grazie per quello che hai fatto per questo Paese”. Non me lo aspettavo, Magdalene. Non mi hanno detto: “grazie per avermi dato lavoro”. Hanno pensato che il nostro, il loro lavoro è stato utile al Paese e al suo popolo. Sono bimbi, abitanti di un Paese di bimbi, bimbi che accompagnano i parenti ciechi ad attraversare la strada per fare l’elemosina, bimbi che spingono le carrozzelle dei fratelli amputati dalla guerra, bimbi che trasportano sulla testa cesti di frutta come fai tu, Magdalene, e di noccioline, di pietre e di oggetti da vendere; bimbi che lavorano nelle miniere, bimbi che vendono il loro corpo a proprietari di alberghi, di locali per turisti bianchi e di miniere; eppure alcuni di loro riescono a dedicarsi agli altri. Hai capito che intendo dire, Magdalene? Magdalene? Mi stai seguendo? Hai capito?

– Sì, boss Marco, però adesso mi scuserai, ché ho queste mele da vendere, e se non riesco a venderne neanche una, stasera saranno dolori. Ho solo un’ultima cosa da chiederti: che fine hanno fatto i quasi-aironi?

Cielo azzurro

Il cielo del ritorno

– Sta giungendo il tramonto ed ecco che tornano a casa, i quasi-aironi. Anche io domani prenderò un volo. Mi vedo già sull’aereo. Alzerò gli oscuranti del finestrino e scorgerò colori meravigliosi. Ancora una volta sarà lo stretto di Gibilterra: una striscia di terra chiamata Europa e una striscia di terra chiamata Africa che sembrano cercare un contatto che non riescono a trovare. Mi girerò verso l’Africa. Sullo sfondo, oltre la condensa di nuvole bianche fragili vedrò avvicendarsi cime scure, dalla sommità ben delineata e sempre più vaga man mano che si scende con lo sguardo; resterò incantato davanti a cime che si avvicendano una dietro all’altra fino a perdersi all’infinito, fino a cedere al cielo, a quel cielo africano ogni giorno diverso; e da questa parte invece la terra ordinata, squadrata, illuminata di notte, riverita, la terra che suona di un accento finalmente comprensibile, e il mare calmo, il mar Mediterraneo, che dopo mesi al cospetto dell’Oceano pare un lago. Ciao Magdalene, ci vediamo di nuovo, prima o poi, da qualche parte.

Magdalene

Il cielo del ritorno

Grazie per essere giunto fin qua. Spero che “Finestra sulla Sierra Leone” e “Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno” ti abbiano fatto buona compagnia in questi mesi. Domani affacciandoti potrai scorgere la galleria fotografica di tutti i cieli della Sierra Leone, nei prossimi mesi potrai continuare ad affacciarti a “Finestra sulla terra“. Oggi vorrei ancora proporti una storia che questa africana ha solo di poco preceduto, una storia brasiliana che si conclude con un’alba sullo stretto di Gibilterra. Trentasei racconti brevi, corredati di una galleria di immagini di volti, vicoli e panorami, affiorati da due anni di vita di un ex-impiegato occidentale nella favela Rocinha di Rio de Janeiro, la più grande favela del Sudamerica. Uno strano viaggio da leggere e guardare che ti farà conoscere gli aspetti più duri di un’area metropolitana afflitta dalla grave carenza delle infrastrutture che dovrebbero garantire agli abitanti i diritti alla salute e all’educazione, spossata dalla storica guerra contro il narcotraffico, dai pregiudizi del mondo di fuori; e che ti porterà a vivere la rivelazione della bellezza di un popolo estremamente giovane, ricco di amore per la vita nonostante tutto.

“Finestra sulla favela: racconti e immagini dalla Rocinha di Rio” è disponibile su Amazon per Kindle e dispositivi con applicazione Kindle, puoi scaricarlo seguendo questo link: http://www.amazon.it/dp/B017ET69F4

Per saperne di più: http://wp.me/p2xPf5-1pH

Chi è che sta in favela?

Finestra su cosa?

  1. […] Questa è la seconda parte, a immagini, dell’ultimo racconto de “Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno”, pubblicata oggi 8 novembre, ufficialmente il primo giorno di libertà dall’epidemia di ebola in Sierra Leone. La prima parte del racconto, quella a parole, la si può leggere seguendo questo link. […]

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