Da Finestra sulla Sierra Leone Il ritorno, di Un impiegato in favela
“Anche per questo ci siamo sposati, per finire una cosa brutta con una cosa bella”.
“Attorno a me vedo solo amore”.
Non saprei che cosa scrivere del matrimonio di Sara e Giovanni. Ancora una volta, seguendo il consiglio del grande Hem, cercherò una frase semplice e sincera. Mi limiterò a ricordare qualche momento di loro due.
La prima volta che vidi Sara fu ai tempi dell’ebola. Era notte e dopo un lungo viaggio con scalo a Dakkar e Conakry, e destinazione finale a Freetown, e dopo aver attraversato una baia oceanica a bordo di un traghetto instabile, e dopo aver attraversato una lunga strada sterrata a bordo di una jeep, raggiunsi i colleghi di Emergency presso una delle abitazioni che ospitavano gli espatriati. Il primario dell’ospedale di chirurgia e traumatologia, Sara, comparve con sorriso di bambina e movimenti netti e precisi di chirurgo; prese a parlare con espressione ora dolce ora implacabile. Il suo sguardo si illuminava di entusiasmo e dopo un attimo si volgeva altrove malinconico. Catturò una sedia, prese a raccontare aneddoti atroci di quando era a Kabul: di pallottole nascoste tra piccole ossa, di frammenti di metallo che viaggiavano tra muscoli, sangue e pelle di bambini e di adulti vittime della guerra.
Più avanti Sara mi presentò un bambino di nome Lookman, del quale la Finestra ha già raccontato e del quale tornerà a raccontare presto, perché Lookman era al matrimonio di Sara e Giovanni ed ha offerto loro gli anelli. Ma tornando a quella sera, quella fu la prima per me; poi c’è stato il centro di ricovero e trattamento dell’ebola di Emergency a Lakka, e le mamme e le bambine e gli uomini che aspettavano afflitti dal dolore e perseguitati dalla febbre alta fuori dal cancello in attesa che si liberasse un posto letto, e il posto letto si liberava in poche ore: il corpo che l’aveva occupato poteva uscire con le sue gambe e il suo sorriso dal cancello dal quale era entrato, oppure trasportato da noi all’uscita di quell’altro cancello là dietro. Poi c’è stato il centro ebola quello grande, e i tir da scaricare, le tute di protezione totale, Suliman Kamara. Qualche volta ci si doveva occupare di far arrivare il latte in polvere perché questa bimba ce la fa e le è tornato l’appetito, altre volte dovevi assicurarti che fossero disponibili le sacche per i corpi inermi in numero sufficiente nelle due misure: le grandi e le piccole. Nel frattempo, non dimenticarti mai, lavati le mani. Il centro è stato attivato in pochissimi giorni con tanto di reparto terapia intensiva e laboratorio per i test ebola. In questo periodo ho conosciuto Giovanni.
Abbiamo condiviso la tenda-ufficio in zona bianca del centro ebola, lui amministratore, io logista. Più di due mesi uno di fronte all’altro, a scambiare sguardi assorti in pensieri diretti alla zona rossa, a condividere le noiose vicende legate alla logistica e alla gestione, e le tremende vicende legate allo scopo del nostro lavoro. Siciliano dalla barba cubana: “Abdul Koroma, che vuoi da me? Non hai una famiglia? Non hai una casa?”, in italiano agli italiani come ai sierraleonesi che passavano da lui a consegnare fatture, a sollecitare pagamenti, a chiedere chiarimenti, “stai sempre davanti a me, devi tormentarmi tutti i giorni? Non hai un lavoro? Dimmi, che vuoi?”. Sornione e bonario, severo e comprensivo, dalla risata esplosiva se gli proponi lo scherzo giusto. Ridere insieme è stato il nostro modo di spingerci alla fine di intense giornate.
Sara e Giovanni si sono incontrati e hanno deciso di sposarsi. Giovanni mi ha spiegato, mentre gli ricordavo che cosa non abbiamo vissuto faccia a faccia in quella tenda-ufficio: “anche per questo abbiamo deciso di sposarci, per finire una cosa brutta con una cosa bella”. (Con “cosa brutta” si riferiva all’ebola, non alla condivisione dell’ufficio con me).
“Abbiamo deciso di sposarci qui, anche se siamo lontani dal posto dove siamo nati, dalle nostre famiglie di sangue,” ha spiegato Sara nel suo discorso agli invitati: “ma ho vissuto quattro anni con voi, e che cosa abbiamo passato insieme non c’è bisogno che ve lo racconti,” sosteneva Sara con la voce spezzata dalla commozione, mentre Jacob e Bockarie, supervisori degli igienisti al centro ebola, ascoltavano con attenzione dopo aver ballato assieme tutta la sera, amici e felici; mentre Jerome, con un manico di scopa, continuava a far scorrere l’acqua dal bianco telo di polietilene che proteggeva il ricevimento dalla pioggia furiosa della stagione delle piogge, telo sorretto da poche assi di legno montate per l’occasione sulla spiaggia di Lakka, sugli scogli, sul mare, telo sul quale si accumulava l’acqua in modo inquietante, che Jerome faceva scorrere per proteggerci; mentre Memuna, mamma adottiva di tutti gli ebola-fighter espatriati, che ci ha preparato da mangiare tutte le sere per mesi e che ci ha accolti ogni sera di ritorno dal lavoro nei vari centri sanitari, dopo aver fatto lo stesso la sera del matrimonio, si concedeva un ballo; mentre Samuel, che ai tempi dell’ebola peggiore si occupava dei livelli dell’acqua e della clorina, nella sera del matrimonio distribuiva birra e bevande; mentre molti altri ciascuno nel suo ruolo, proteggevano e condividevano un momento di felicità a conclusione dei tempi dell’ebola peggiore: “siamo lontani dal luogo dove siamo nati, siamo lontani dalle famiglie di sangue, ma quanti anni abbiamo passato assieme, e adesso attorno a me vedo solo amore”.
Con tutto il rispetto per Gabo, con un saluto al vecchio
A presto con il preannunciato dubbio da risolvere: è più grande un ragno o una petroliera?
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