un impiegato in favela

People are strange

In Finestra sulla favela Rocinha on 6 ottobre 2012 at 19:57

La copertina di “Strange days”

Quello che non ha mai avuto le gambe né nessun problema a spostarsi su e giù per la collina, da rua Dioneia dove abita, alla rua um dove lavora: si porta sulla soglia della strada principale seduto su una tavola da skate, e qui aspetta un motociclista amico che lo traini, braccia forti appese al codone, ruote dello skate sull’asfalto  Ai codoni delle moto si aggrappano anche i bimbi di strada più selvaggi, quelli più abbandonati e liberi, quelli senza freni, ma in questo caso non vi si aggrappano per prendere un passaggio, ma per divertirsi a fermarle, le moto, e a sentir gridare il pilota che intima loro di scendere. Se sono stanchi di correre e ritengono di  aver bisogno di un passaggio si aggrappano al retro dei camion (nelle poche strade di Rocinha dove i camion riescono a passare, a volte con manovre impossibili). Invece quello senza gambe risale fino a quadra da rua um (il  campo sportivo della rua um), dove si gioca a calcio e il sabato c’è il  baile funky, e qui vende birra.

Qui vicino, all’inizio della rua um, c’è la spaventabambini, che continua a far picchiettare il suo tamburello per tormentare la polizia.

Poi ci sono i miserabili che si immergono nelle discariche a cielo aperto, in pantaloncini e awaianas, per cercare cartone e lattine da rivendere nei centri di raccolta differenziata, o qualche elettrodomestico che a qualcun altro non serve più e dai quali si possono ricavare materiale elettronico e fili per elettricisti e ferramenta; le gambe scure per etnia e per scarsità di igiene e di cura, e martoriate da qualche malattia della pelle e dalle ferite riportate durante queste ricerche. Gli avventori dei bar vicino, le mamme che accompagnano i bambini, i bambini che girano da soli, i commercianti e gli altri lavoratori e abitanti, continuano nelle loro attività: in favela, soprattutto in una grande come la Rocinha, ci sono diversi livelli di povertà e di ricchezza e convivono negli stessi quartieri e nelle stesse strade.

Quelli che se ne  vanno in giro con un bozzo gonfio sul collo o sul viso del quale non sembrano curarsi: se lo portano dietro come un naso. Si tratta di tumori forse provocati dall’amianto, che in favela è ancora materiale base di  molti tetti  e molti  serbatoi d’acqua.  Passeggiano, ridono, bevono birra con gli amici. La voglia di vivere il tempo che la malattia gli concede è più forte di qualsiasi moto a curarsi per avere più tempo da vivere.

Quella giovane che canta e balla tutte le sere sul piano rialzato del bar in estrada da gavea, per gridare in faccia ad una comunità machista che è nato uomo magro moro triste e adesso è donna bionda abbondante e felice. Quello vecchio che grida alla stessa comunità machista di essere uomo al quale piacciono gli uomini, e per farlo se ne va in giro in calzamaglia a macchie leopardo e hot pants a ballare funky ostentando il culo e il fianco; beve birra e ha una piccola ferita sopra il sopracciglio che  non si rimargina mai.

Quello giovane e ritardato che si presenta tutte le sere sul balcone del primo piano della casa che fa angolo estrada da gavea / rua dioneia, dall’altro lato rispetto a dove c’è il posto di controllo fisso della polizia civile, e, da questa parte, agitando le braccia e facendo boccacce, mima azioni di guerra, attacchi e sbeffeggiamenti, che finiscono sempre con un sorriso, perché si diverte come un matto. Anche quelli della polizia a volte lo guardano e si divertono; per lui il processo di pacificazione ha portato un miglioramento, perché adesso almeno sa come divertirsi, nell’ora in cui in Rocinha sta per tramontare il sole.

Quel ragazzo magro dalla pelle scura, il sorriso ingenuo, gli occhi stralunati, uno che hai conosciuto durante le feste di Rocinha in rua 4, uno a posto che lavorava, in compagnia del quale hai passato qualche serata: insieme a lui e ad altri amici, una compagnia di  giovani che ti stanno simpatici perché, pur non disdegnando il prestigio esotico del quale possono pregiarsi per trovarsi a bere con un gringo che viene da lontano e che abita in favela, non ti chiedono altro (tipo favori o soldi che non puoi dare). Poi, per un po’ di tempo, non lo vedi più, il pretinho (il negretto), allora interroghi gli amici in comune: “Xangò che fine ha fatto?” – “è stato preso (‘arrestato’ in portoghese) venerdì sera” – “Ah. Oh cazzo. E perché? Che è successo?” – “Beveva in rua 4, è arrivata la polizia e l’ha preso.” – “Sì ma che ha fatto?” – “Sta al carcere di Leblon adesso.” – “Ah. E quando esce?” – “È una cosa lunga.” – “Sì ma quanto lunga? Che ha fatto?” – “È una cosa lunga. È assassino. Ha sorpreso la sua donna con un altro e l’ha uccisa.” – “Ah.”

A ripensare a queste vite, sono tanti i racconti e le canzoni che ti tornano in mente. C’è  quella dei Doors che racconta di gente strana che guarda male gente strana; quella di De André che ti racconta dei luoghi dove incontri il tipo strano, quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano, dove le storie di umanità sono da capire prima che da giudicare; ciascun abitante di un luogo misero come la favela Rocinha un De André. Ti passano per la testa gli elementi in comune tra i sud del mondo; i becos di una favela di Rio e i carruggi del porto di Genova,  i quartieri spagnoli di Napoli, la Vucciria di Palermo, tutti sud di un’altra regione e coloro che vi abitano figli di questo mondo.

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