Da Finestra sulla Nigeria (del nord), di Un impiegato in favela
Capitolo 3 – Ponte Lambro, casa?
“Sono proprio contento di essere vivo, prossimo al congedo;
certo, vivo in un mondo di merda, questo sì,
ma sono vivo e non ho più paura.”
(Da Full Metal Jacket, Stanley Kubrick)
Un attimo prima, ad Abuja, tutto bisbigliava: ai bordi della strada tralicci reggevano a stento fili elettrici traballanti, lampioni friggevano, auto suicida facevano slalom tra le corsie spintonandoti addosso blocchi d’aria; ossa di cantieri scricchiolavano sotto il peso della loro lenta crescita prefigurando future ascese e tracolli; ai bordi dell’asfalto si affacciavano teste preistoriche dai gesti buffi degli agama agama, racconti di decadenza presente e futura, boccioli di disillusioni, strette di mano velenose, buste di ufficiali corrotti, rincorse disperate, fughe, foglie annerite dal petrolio, piume abbrustolite dal gas, puzza di pelle brasata, abbaglianti insegne e stazioni di rifornimento deserte.
Smonto dall’auto. Scende anche Emmanuel, l’autista. Mi offre sottomessi slanci di affetto dichiarandomi che dovrei tornare, che gli mancherò; si offre di allacciarmi le scarpe, di caricarsi sulla schiena le mie valigie; mi propone con insistenza di presentarlo alla mia famiglia.
All’ingresso dell’aeroporto un’invadente pancia verde-militare richiede il passaporto ad una giovane ragazza che mi precede nella fila e non la lascia in pace fino a che non la raggiunge il marito più grosso di lui. Mi tornano in mente i posti di blocco del nord-est: “Non hai qualcosa per me?”, sussurra la divisa col kalashnikov, “guarda bene, neanche una bottiglia d’acqua? Facciamo la prossima volta?”… “Solo i passeggeri!”, si affanna il militare, “tu, mostrami il biglietto!”. Un uomo riesce a sgattaiolargli sotto l’ascella: “torna indietro, canaglia!” “Yessir, accompagno il signore al check-in ed esco” “Esci ora!” “Sir…” “Ora!”, accarezzando il mitra.
L’aeroporto mi accoglie tra pareti ammuffite, scritte sbiadite e calcinacci. Seguono l’ispezione dei bagagli e il controllo dei documenti: “hai pagato per il rinnovo del visto?… come no? devi pagare la tassa, puoi pagarla ora a me? non hai contanti? passi per questa volta, non perdiamo tempo, circolare!”. Al metal detector qualcuno affonda le mani nell’intimità del mio zaino, cerca qualcosa di prezioso, non trova niente. Avanzo. Oltre quella linea gialla ricominciano i miei diritti. Un passo alla volta. Oltre quella linea gialla ricomincia casa.
Agli imbarchi risuona nel petto di ognuno la paura della bomba. Ci scambiamo sguardi furtivi, boccheggiamo davanti al condizionatore, fuori avanza la notte. Due ore di attesa e sarò a bordo.
È l’alba a Parigi. Corridoi tappezzati di rosso, vetrate luccicanti, tubi al neon viola cangiante accompagnano lo scalo verso il prossimo imbarco. Sono tutti bianchi qua attorno, a parte i cinesi. Alle pareti poster di gioielli, profumi, Carlà, Scarlett; dietro le vetrine dei duty-free le Tour Eiffel in varie dimensioni, maison du chocolat, ho fame, ci sono i panini imbottiti e le brioche alla crema, no dai, non cominciamo. Dovrei fermarmi un paio di notti a Parigi, magari a settembre. Al gate è già domenica, wifi gratuito, mega-schermi che ti augurano buone vacanze, teste infilate negli smart-phone, bambini che frignano con le loro scarpette; al controllo dei passaporti nessuno ti chiede soldi, nessun infila mani e sguardi, il gendarme ti propone un benvenuto.
Sono tornato? Sono tornato ancora una volta? Non ricordo neanche di essere partito, è come essermi svegliato dopo un sogno. Qui attorno tutto è simile a prima, le mie cose sono rimaste negli scaffali, i vestiti nell’armadio. Un po’ di polvere, l’orologio avanti di qualche mese, di qualche anno. Eppure devo essere partito: alle valigie sono ancora attaccati i tagliandi del volo. Quanto tempo è passato? Devo aver preso una botta in testa, qualcosa dev’essere successo perché mi ricordo che un tempo c’era un lavoro, un ufficio, una cravatta… ecco, sì, c’era un’azienda che era al servizio dei consumatori che lavorando potevano acquistare i prodotti dell’azienda. Potevi comprarti una polo blu col colletto e una senza, una camicia rossa che non indossavi mai e una nera, un telefono per comunicare meglio, le cuffie per sentire meglio mentre comunicavi, il microfono blue-tooth per parlare meglio, il porta-telefono per il cruscotto dell’auto per essere più sicuro mentre parlavi e guidavi, l’auto per il porta-telefono, il porta-telefono per quando correvi, le scarpe tecniche per correre meglio, la bici artigianale come il gelato, il casco per la bici, il cucchiaio per il gelato, il fine settimana lungo al lago, il manuale di ricette thai, i libri e i film per alimentare la cultura, le feste solidali in disco. Era così. Poi di tanto in tanto c’era una brutta notizia, una bomba, una nave che affondava ma poi passava; una bomba più vicina a casa, ma passava pure quella; c’era Omran, ma passava pure quello, la Siria e gli integralisti islamici ma passavano in un soffio; i rifugiati e i migranti economici che ci privavano delle tende, i politici corrotti e i giustizieri, ma passavano tutti, tutto passava e si tornava a tuffarsi in tangenziale. Sì, ricordo, adesso ricordo. La tangenziale ti portava al tuo dovere perché c’era un progetto da consegnare, la produttività da aumentare, una presentazione da presentare, una riunione da convocare, un dopo-lavoro, un aperitivo da bere e da mangiare. Dov’è finito quel mondo? Ho aperto la porta, ho fatto un passo e mi sono ritrovato in mezzo a un appezzamento di terreno che ti offre tutte le comodità, ti offre tutte le comodità ma è solo uno straccio di appezzamento, mentre tutto attorno sono bombe, bambini arruolati, indottrinati e violentati, centinaia di milioni di dollari scomparsi, diamanti, coltan, uranio, altri minerali, gas di scarico infiammati in un rogo di villaggi di paglia e fango in mezzo alla foresta; e poi soda caustica, epidemie, povertà, bombe, militari, tortura, grida, spavento, stragi, due milioni e trecentomila persone in fuga attorno al lago Chad, sette milioni di persone a corto di cibo; e poi per esempio il Mali, la Repubblica del Centrafrica, lo Yemen, i Territori Palestinesi Occupati, il Sudan e il Sud Sudan, l’Eritrea, il Venezuela, le favelas di periferia e del centro, la Libia, l’Afghanistan, c’è anche l’Afghanistan, c’è ancora, eppure era passato, e queste cose non passano mai e nessuno ne sa niente.
No, forse non sono ancora tornato, forse non tornerò più, ma che io torni o no non ha più alcuna importanza. In compenso, ecco qui, un po’ per magia, un po’ per sensibilità e per altri motivi, ecco, so che devo andare a fare una visita in ospedale perché c’è un pezzo di quel mondo che di solito sta al di fuori dell’appezzamento di terra felice che oggi si ritrova invece proprio in mezzo all’appezzamento di terra felice, circondato di giocattoli, disegni colorati, cartoni animati e qualche persona che ha deciso di prendersi cura di lui correndo il rischio di non tornare più nel mondo di prima; ma questa è un’altra storia (a proposito, abbiamo bisogno di persone che abbiano voglia di giocare anche solo di tanto in tanto con Lookman!, scrivete a me o a Monica: monica@mammaduitalia.it). Per il momento mi va solo di aggiungere che credo ci sia una finestra in ognuno di noi. Puoi aprirla dove ti pare e vivere il mondo che ti pare, a te la libertà e la responsabilità della tua scelta. Occhio però: come dicono i pastori del sole, se il sole varca i confini nessuna freccia potrà più colpirlo.
Grazie per essere arrivata (o arrivato) fin qua. Grazie per esserti affacciata (o affacciato) alla Finestra sulla favela; grazie per la compagnia, per l’affetto a me e a chi deve vivere la crisi nigeriana e non può tornare. Ricordati che la crisi non finisce con la Finestra, come non finiscono le crisi sulle quali questa finestra si è affacciata e quelle sulle quali non si è mai affacciata (prova a fare una ricerca su Mali, Repubblica del Centrafrica, Yemen, Territori Palestinesi Occupati, Sudan e Sud Sudan, Eritrea, Venezuela, Libia, Afghanistan solo per citare qualche esempio, ma ce ne sono tante di favelas, sono ovunque). Questo è il terzo e ultimo capitolo dell’ultimo racconto de Finestra sulla Nigeria (del nord); a questo link il primo capitolo, qui il secondo. Puoi trovare tutti i racconti di questa versione de Finestra sulla favela su questa pagina . Finestra sulla favela è stata aperta anche in Brasile, in Sierra Leone in tre parti: durante l’ebola, nel corso della fase calante dell’epidemia e alla scoperta dell’aera rurale. Per eplorare la favela brasiliana c’è anche l’e-book di racconti (miei, Marco Loiodice) e immagini (di Antonio Spirito) che puoi scaricare qui. Ed ecco nel seguito l’ultima parte del diario fotografico della missione nigeriana (puoi scorrere le immagini con un click). Un abbraccio, alla prossima! Marco