Il ristorante verde è il mio ristorante preferito perché ha le pareti verdi, è grande, ha molti tavoli, è aperto quasi tutte le sere fino a tardi, una volta era abbastanza economico (ora meno, ma sarà che sono io che ho meno soldi), servono l’Itaipava e non solo l’Antarctica, e non stai seduto sul marciapiede ma neanche ti viene negata la vista di quanto avviene fuori. La parete esterna è aperta per metà, con un muricciolo che quando sei seduto ti arriva all’altezza del petto, e sopra al muricciolo c’è una fila di travi di legno orizzontali che si alternano con spazi vuoti per consentirti di vedere fuori. Ci vedi passare gli autobus che si fermano proprio davanti a te, con i passeggeri che a volte hanno il viso allegro, a volte pensieroso, e se ti conoscono, che prima fossero allegri o pensierosi, spiegano il sorriso e si sbracciano per salutarti, e tu fai lo stesso con loro, che tu fossi allegro o pensieroso prima di vederli. Insomma, una finestra sulla favela, e una finestra della favela su di te; e infatti succede che la favela è anche dentro e non solo fuori, e che quella che è fuori si alterna con quella che è dentro, entrando e uscendo.
Dentro al ristorante verde c’è il signor Moacir, seu Moacir, il proprietario, qualcuno dice proprietario di altri tre ristoranti, ma lui sta sempre qua. Sta sempre qua forse perché ci lavora la figlia, e della figlia se ne parla dopo: qui posso anticipare che si chiama Tainá. Moacir è basso, ha il panciotto rotondo, il viso serio; il naso, schiacciato all’altezza delle sopracciglia e degli zigomi, emerge in fondo, in prossimità delle narici, in una rotondità bitorzoluta. Il suo volto è quasi sempre serio; il signor Moacir non parla quasi mai, tranne quando viene a trovarlo una signora che si siede al tavolo vicino al bancone per bere una birra; allora lui abbandona la cassa e si siede al tavolo con lei, non prima di essersi lisciato i pochi capelli grigi allo specchio piccolo che ha collocato tra la bottiglia di cachaça e quella di whisky.
Tainá del padre ha l’espressione malinconica, che si porta quasi sempre sul viso, e di lui ha anche il naso, reso però più attraente per essere quello di una giovane donna che porta sul volto il riflesso dei capelli lisci lunghi e biondi e il desiderio di essere donna indipendente. Tainá non chiede niente a nessuno, parla poco, e solo qualche volta si apre in un sorriso e in una chiacchiera con un tifoso del Flamengo e con un gringo. Il tifoso del Flamengo è l’avventore più grosso del bar, e si porta sotto alla crapa pelata una collottola di grasso che gli fa sporgere la nuca dal cranio. È simpatico, ride spesso e scherza con te anche se non sei tifoso del Flamengo ma del Vasco.
Entra nel ristorante verde l’uomo delle discariche, in una delle sue serate storte, una di quelle da lupi, una di quelle in cui se ne va in giro come durante l’orario lavorativo, con la maglietta macchiata anziché con quella con il colletto, e gli occhi più gialli dei denti, e la parlata più soffocata e veloce che mai. Varca il confine, l’uomo delle discariche, e non siamo più noi a restare affacciati ad osservare quelli fuori, ma questi ad affacciarsi a ciò che accade dentro, perché seu Moacir si scaglia contro all’uomo delle discariche senza proferire una parola, e lo aggancia per i polsi, e l’uomo delle discariche prova a divincolarsi ma gli scivola l’anca sinistra, e perde l’havaianas destra mentre seu Moacir digrigna i denti e lo spintona, e sputa, e gli tira ginocchiate negli stinchi, così l’uomo delle discariche non può che rassegnarsi a varcare a ritroso i confini che separano il dentro dal fuori, e con lui le sue ginocchia nodose. Seu Moacir si ricompone e torna dietro al bancone, riprende fiato e si liscia i capelli mentre l’uomo delle discariche, nervoso e provato dall’ingiustizia, si affaccia di nuovo. Interviene Tainá, che gli parla, gli spiega, con la sua espressione malinconica, che stasera è storto e che non è il caso che entri, e pare che l’uomo voglia gridare, ma le sue grida sono soffocate da qualche ostacolo che ha dentro, e gli occhi gli si gonfiano fuori dalle orbite, arrossati come quelli di un cartone animato.
Seu Moacir è provato e fiero, Tainá abbandona la conversazione con l’uomo delle discariche, si volta per tornare al lavoro, non prima di rivolgersi al tifoso del Flamengo in una danza di vittoria sorridente e goffa, non prima che l’uomo delle discariche si affacci alle travi di legno, dall’altra parte: da lì nessuno può cacciarlo, e parla a me che sto di qua, ma io non riesco a capirlo, gli sorrido e lui si mette a ridere, perché in fondo non si è trattato che di una notte storta, e verrà un altro giorno. Entra in scena il viado, il signore magro con i capelli ricci corti e bianchi che se ne va in giro con gli hot pants, la calzamaglia a pois grigi e neri, la maglietta nera, i brillantini nei capelli e un graffio sul sopracciglio che non si rimargina mai. Entra con un raffinato passo di danza, si ferma a fissare Seu Moacir e la figlia, e dopo un secondo di concentrazione, dopo essersi assicurato che tutti gli avventori lo stiano osservando, ecco che si esprime in una sublime piroetta, dopo la quale sculetta e ammicca; subito dopo si dilegua per la strada e per la notte, mentre Seu Moacir e Tainá ridono. Anche l’uomo delle discariche ride e sbeffeggia il viado, poi si interrompe e si mette a fissare un punto per la strada, e chissà che ci vede.
I bimbi sono nati qui. Non hanno paura di salterellare ovunque, e vedono tutto. Si vede da questa finestra dove vanno? No, da qui non si vede, però da qui si sa che i bimbi imitano i grandi, e da come imitano i grandi sai dove sono stati prima. Se attraversando la strada per andare al ristorante verde, un bimbo, abituato a passare attraverso alle moto, questa volta la moto la ferma imitando con le manine e le braccia una mitraglia, può essere che in giro per i vicoli di favela abbia visto un bandito con la mitraglia, oppure le truppe della Choque, o quelle della Core, oppure che abbia visto troppa televisione e io troppa Choque e troppa Core.
Qui comincia la preghiera.
Vorrei.