Di Lookman, Di Un impiegato in favela
“Life is what happens to you while you’re busy”
“Dev’essere un tripudio dei sensi, sennò niente”, sospirava dal centro di un palco di un teatrino povero di un villaggio in cui di solito si tratta di mercato e di bestiame e di come tirare avanti con la vita. L’acustica era pessima: non era che un capannone dalle pareti di muratura e il tetto di alluminio, torrido da ottobre a marzo nonostante le aperture senza finestra lasciate a respirare sulla fascia superiore delle pareti, soffocato dal battito incalzante dell’acqua che veniva giù dal cielo incessante durante la stagione delle piogge. La platea ascoltava una storia soprendente nella quale una porzione di foresta tropicale non distante dall’oceano e le persone che l’abitavano erano state in qualche modo coinvolte.
Contemporaneamente, dall’altra parte del mondo, in una comoda abitazione di una città dalle strade dall’asfalto limipido e dai mezzi pubblici molto ben funzionanti (quasi sempre), qualcuno si affacciava ai fornelli non prima di aver aperto una bottiglia di vino rosso e di aver fatto partire della musica: la cena di una giornata così intensa ed enigmatica, la prima da un po’ di tempo libera dal pensiero di ciò di cui occuparsi il giorno dopo o la settimana a venire, non poteva che essere corredata di tutto ciò che doveva servire a coinvolgere tutti i sensi: o tutto o niente; fuori, il cielo plumbeo dei temporali di maggio avrebbe incoraggiato a perseverare nel chiudersi in casa, a vivere almeno un attimo solo con se stessi, a prendersi cura anche solo per un attimo di se stessi. Solo un pensiero veloce alle notizie della cronaca del giorno: in molti in quel periodo facevano un gran parlare di ONG e dei loro accordi coi trafficanti: “trafficanti”, una novità dopo “scafisti”, finalmente la parola giusta, peccato non completa, si sarebbe dovuto parlare di ciò che erano: trafficanti di esseri umani, non certo più o meno esperti naviganti; e non era di questo, dell’esistenza di un fenomeno di traffico di esseri umani, che la gente avrebbe dovuto dedicare tempo a dibattere?… ma non divagare adesso, questa è la tua serata, puoi evitarti di guastarla prendendo parte agli sproloqui quotidiani. Tanto svaniranno tra poco e tu hai diritto di liberartene per un po’. Peraltro non ci sono reazioni possibili: semplicemente, per quanto ti riguarda, puoi concederti di sentirti meglio al pensiero di dove ti trovi e di che cosa fai. Fai bene a restartene qui sulle tue, vivi in un altro mondo. Sì, oggi perderò tempo, mi lascerò andare a sospirare e a sentir le palpebre sfiorare gli occhi come un velo, anche solo per un attimo, per un respiro di umanità. Addormentarmi e di nuovo risvegliarmi. Così pensava il personaggio da questa parte della finestra.
“Viviamo molto di più di quello che riteniamo”, recitava dall’altra parte un animatore sociale di un piccolo villaggio, per spiegare a se stesso e al suo pubblico perché il bambino tornato da poco dall’Italia indossava altri vestiti, aveva la bocca più aperta di prima, quindici centimetri di altezza in più, il fare più vicino a quello di un ragazzino che a quello di un bimbo piccolo, il fare di un ragazzino straniero, quasi di un opoto, e gli occhi ricolmi di racconti di un mondo al villaggio sconosciuto. L’apertura più ampia della bocca, guadagnata nei dieci mesi di permanenza in Italia, dava a Lookman la possibilità di scandire qualche vocale in più di un tempo: le consonanti gli sarebbero state negate, a causa della lingua immobile, ma non per questo aveva problemi a farsi capire. Quando il capo del villaggio, quel vecchietto buffo dalla pelle secca, le guance scavate e la barba lunga e bianca, gli occhi ingialliti per il fegato malfunzionante, chiese a Lookman di raccontare che cosa aveva fatto tutto questo tempo in quel posto chiamato Italia e che cosa aveva portato indietro in Sierra Leone, a Lookman brillarono gli occhi e la sua gola martoriata prese ad intonare un motivetto: “mh… mh mh mh mh mh… mh mh mh… mh. mh!”. Il pubblico del teatrino esplose in una risata. Il papà di Lookman rise anche lui ma per un motivo diverso: capì quant’era buffa la situazione e non seppe spiegarlo agli altri; nessuno conosceva la sigla di Masha e Orso, loro due sì. Si ricordava dei dvd che si era portato dietro dai quali si erano lasciati accompagnare nel corso di quella lunga permanenza dall’altra parte del mondo. Aveva i dvd e da qualche parte avrebbe dovuto ritrovare anche i semi per le cipolle rosse (anche in Sierra Leone ci sono le cipolle, ma non così, rosse), per i peperoni (li aveva trovati particolarmente buoni), per il basilico e per i pomodori (anche in Sierra Leone c’erano i pomodori, ma non così grossi e succosi).
Proprio mentre il papà di Sulaiman pensava ai semi e Lookman canticchiava Masha e Orso, in un appartamento normale nel quale si preparava una rituale, solitaria, riflessiva cena che aspirava a non farsi mancare nulla, qualcuno che si era occupato di Lookman nei mesi precedenti, ritrovava un cd con un cartone animato di animali lasciato indietro nel caos degli ultimi giorni prima della partenza e ripensava a quando avevano dovuto ascoltare il responso dei dottori: “quello che abbiamo fatto finora è ciò che era possibile fare, andare oltre sarebbe troppo rischioso perché i tessuti dell’esofago sono troppo deboli e non è possibile recuperare le funzionalità della lingua” e a come aveva reagito il papà di Lookman: “Dio mi ha dato questo bambino, se Lui vuole che resti così, lo accetteremo”.
“Ci sono corridoi e scaffali puliti e illuminati e una folla di persone che vi si accalca ogni giorno, si possono prendere le cipolle rosse per il papà e il latte per me, si può girare col carrello con le ruote, ci sono i cartoni con i disegni di Masha e Orso,” raccontava intanto Lookman a gesti e mugolii, “si può ammiccare con l’occhiolino a uomini grossi affacciati a una fila di formaggi diversi e divertirsi mentre sgranano gli occhi sorpresi che tu li stia invitando a giocare. Alla fine si può fare un gioco: prendi latte, cipolle, succhi di frutta, quello che hai preso per il papà e li passi su una lucina rossa che fa BIP!, c’è da sganasciarsi dalle risate mentre il papà è buffissimo, rigido di vergogna…”
Il supermercato era sempre una gita gioiosa, certo, non come quando si andava a vedere gli aerei che decollavano e atterravano, forse neanche come i giri in tram, però anche il supermercato non era male, pensava tra sé e sé il personaggio intento a far friggere le zucchine (le zucchine non ci sono in Sierra Leone, forse gli si poteva dare i semi anche di quelle, ma tanto ho già visto che non prendono, non prenderanno neanche le cipolle rosse, ma chissà, e poi lui era felice all’idea di poter provare a creare nel suo villaggio un esclusivo orto dai prodotti europei; il resto non aveva importanza). Quella volta, alle casse, era stato divertente vedere come lo guardava la gente in coda e l’assistente là dietro, eccitato all’opportunità di poter accompagnare, con voce un po’ addolcita, il bambino nero alle prese con la pistola laser, un po’ spezzata dal nervosismo per la coda che si formava dietro. Non altrettanto divertente era stata quella volta che avevamo portato il papà a prendere il kebab e il bimbo si era divertito a vedere pizze e panini generarsi tra le mani dei cuochi tra girarrosti e forni elettrici dagli infernali sportelli che dischiudevano nuvole di fumo bianco, per poi intristirsi perché si era reso conto che non poteva addentare il gustoso risultato di quel pasticciare; e quella era stata l’unica volta in cui, in due anni che lo conosceva, aveva visto il bambino lamentarsi per la sua condizione.
Mentre da una parte del mondo un bimbo un po’ africano e ora un po’ italiano raccontava in uno spazio di riunioni, quasi un teatrino, ad un pubblico dagli occhi sgranati che, per l’occasione, in via straordinaria, aveva lasciato acceso il generatore per mantenere la luce elettrica per qualche ora in più, e raccontava loro le meraviglie che aveva visto, i film, i giochi, di come aveva imparato ad andare in bicicletta e sul monopattino, di quanti amici aveva avuto, dei parchi, dei laghi, dei prati, dei pianoforti, dei musei dei pesci, delle strade, dei camion, delle moto, di come funzionavano bene i lettini degli ospedali e gli schienali che si alzavano e si abbassavano con un pulsante e le macchinette per mettere in moto le flebo e di come fa freddo d’inverno e di come torna il caldo d’estate (mentre da loro faceva sempre caldo e al limite si metterva a piovere e pareva che non la volesse smettere mai più); mentre il bambino concedeva alla sua gente uno spiraglio su un mondo lontano, il tipo della cena, ma non solo lui, in molti tra gli amici di Lookman, ripensavano a quello che avevano vissuto con un bambino e un papà che vivevano in un luogo a loro sconosciuto, di come non era stato sempre facile comunicare con quel bimbo e con quel papà, di come il bimbo era riuscito a comunicare coi bimbi che nessuno riusciva a capire, russi e ucraini, un altro mondo ancora; e ripensavano a molte altre storie vissute insieme, e pensavano che chissà che cosa starà facendo adesso Lookman in Sierra Leone, e qualcuno di loro dedicava qualche attimo a pensare anche a tutti gli altri Lookman della Sierra Leone e della Nigeria, della Repubblica Centrafricana, della Repubblica Democratica del Congo, della Somalia, della Libia, dello Yemen, della Siria, dell’Iraq, abitante di ogni favela.
Ora devo dirti la verità però: di Lookman non si sa se proprio avrà davvero la possibilità di esprimersi davanti a un pubblico di un piccolo teatro nel suo villaggio, forse le cose non andranno proprio così, forse al villaggio resteranno intenti a trattare bestiame e prodotti da mercato, e chissà per quanto tempo, da questa parte, chi non lo ha conosciuto si ricorderà di Lookman (chi lo ha conosciuto non si dimenticherà mai di lui, come lui non si dimenticherà di chi ha conosciuto). Per il momento si sa che il viaggio di ritorno di Lookman e papà Sulaiman è stato lungo, molto più lungo del previsto, e che, dopo aver preso un volo per passare da un mondo all’altro, ha avuto una notte lunga, perché l’aereo non riusciva ad atterrare per la pioggia, che quasi ti sarebbe venuta voglia di tornare indietro, ma che al suo atterraggio in ritardo qualcuno li ha accolti e si è preso cura di loro, ha trovato loro una sistemazione comoda, è rimasto con loro, perché di notte, con la pioggia e le strade infangate, sarebbe stato pericoloso provare a raggiungere Mototorka, il villaggio di Lookman. Invece oggi, mentre ti sto scrivendo, Lookman è a casa. Da qui in poi, con amici che lavorano in Sierra Leone da tanto tempo, continueremo a proteggerlo e vedremo come seguire la sua educazione perché un giorno Lookman possa essere libero di scegliere dove stare e che cosa fare, come è suo diritto. Le notizie da Mototorka non saranno forse così frequenti ma ci saranno, le si potrà leggere, come al solito, affacciandosi alla finestra, in attesa che un giorno possa scriverci lui stesso.
PS ah, se volete ascoltare anche voi la musica che il personaggio del nostro mondo aveva messo mentre friggeva zucchine lasciandosi andare forse a un po’ di retorica, ecco che la condivido, eccola qui; per tirarsi un po’ su invece dalla finestra si consiglia questa.