un impiegato in favela

Bolle di sapone

In Finestra sulla favela Rocinha, Storie di Pacificazione on 3 ottobre 2013 at 22:01

Questa è la storia di una bolla di sapone che nasce dal soffio di un bimbo che gioca, durante un pagode di favela.

La bolla si libera timida dal piccolo cerchio di plastica che, insieme al soffio del bimbo, l’ha fatta nascere; timida perché il bimbo ha capito tardi come funziona il gioco. Prima ha pensato che il cerchietto fosse da leccare, poi, sentendo sulla lingua e sul palato il sapore sciapo e viscido del sapone, ha arricciato il naso, strizzato gli occhi, e osservato il cerchietto con diffidenza. Mentre i grandi attorno a lui ridevano, ballavano e bevevano, ha preso coraggio e una volta ancora ha infilato il cerchietto nel tubo che teneva stretto nell’altra mano, e dopo averlo estratto, ha studiato perplesso e curioso le luci che si riflettevano sulla pellicola trasparente di acqua e sapone che ora un soffio di vento tropicale sta deformando in una semisfera, che ora si deforma ancora, si stringe e si allarga, e spinge come un cucciolo che si divincola dal ventre. Il bimbo gonfia le guance e le svuota con un gesto d’istinto nel centro di quell’embrione, che così bolla di sapone diventa, e prende il volo. Vola lontano dal suo creatore che resta immobile con gli occhi spalancati per la meraviglia, la bolla di sapone, e vibra per le scosse che provengono dalle casse amplificatrici del pagode, enormi e nere, e sfiora i capelli crespi di una mulatta che sta seduta davanti alle casse e che protegge con le braccia, i seni e il ventre un bimbo nato da pochi mesi. Il bimbo è perso in un sonno profondo, un sonno che è il richiamo del luogo da dove è giunto qualche mese fa, ed è avvolto da una coperta e un cappellino di cotone, e non si interessa alla bolla di sapone, che prosegue il suo percorso passando in mezzo alle gambe euforiche di un giovane ubriaco che dopo una lunga settimana di lavoro pesante, si sfoga esercitando i balli della sua terra di provenienza: sono i balli che gli ha insegnato un vecchio del Ceará, che sta a chilometri, a giorni di strada da qui, il luogo dove è nato. La bolla di sapone si allontana dal giovane ubriaco e sfiora i capelli ricci e bianchi di un vecchio che indossa occhiali da intellettuale e cappello da marinaio, e viene travolta da una folata di vento che la porta a divincolarsi tra le foglie di una mangueira che ci mancava poco che non la facessero scoppiare; vola alta, a qualche metro da una strada larga dove le persone si sono diradate e sfrecciano le moto e gli autobus grandi, enormi; sale vicino alle foglie di palma, verso le stelle, e si spinge fino a dove le case di mattone rosso e cemento grigio compongono un alveare e cedono il passo al verde scuro della foresta; poi un soffio di vento tropicale la fa ridiscendere verso il dorso della collina dove più di cent’anni fa è nata una favela, e la accompagna a morire, ad infrangersi in milioni di particelle di acqua e sapone sulla canna di un fucile mitragliatore.

L’altra sera si propagava l’eco di colpi d’arma da fuoco, fuori dalla finestra. Erano colpi secchi, prima fitti poi radi, come se partissero da un’arma di chi prima è stato preso di sorpresa, poi si è calmato e ha preso a sparare un colpo alla volta per prendere la mira. Forse qualche giovane si esercitava a sparare centrando qualche bolla di sapone. La bolla di sapone si è infranta ma continuerà ad esistere nella forma di invisibili gocce che si sono appoggiate sulle guance magre e scure di un giovane che spara, sul calcio della mitraglia che imbraccia, sulla fronte di un bimbo che corre su per i vicoli e vola da un tetto all’altro, sulle ciglia di un bimbo che soffia in mezzo a un piccolo cerchio di plastica per fare le bolle di sapone nel corso di un pagode.

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