un impiegato in favela

Quaranta: l’amore ai tempi del colera (amore #3)

In Finestra su Longacres on 25 febbraio 2018 at 22:20

Da Finestra su Longacres, Di A.

… i sintomi dell’amore sono gli stessi del colera.
(L’amore ai tempi del colera, Gabriel García Márquez)

Finalmente è calata la notte a Lusaka, e così pure il silenzio. La finestra sta per chiudersi, mentre le tende color magenta filtrano il chiaro di luna di una lampadina levata nel cielo ed i pensieri rimangono intrappolati nella stanza, fermi davanti agli occhi. Mi guardo allo specchio e gli stessi pensieri scorrono uno davanti all’altro in ordine casuale, allora mi spoglio dei vestiti e provo a spogliarmi delle preoccupazioni, le lascio cadere tutte a terra sul pavimento, intorno alle caviglie sottili che portano un peso nuovo. Eccoli i miei pensieri, pronti ad essere calpestati, maltrattati e così procedo, li calpesto, li maltratto e li maledico. Tra tutti i pensieri uno rende la notte zambiana più greve: lui, lui che ha attraversato l’oceano per vedere il Cigno e l’Orsa Maggiore, lui che vive sotto un altro cielo. Il silenzio si infrange, incomincia a piovere contro ai vetri sulla finestra chiusa, le gocce bussano forte, esattamente come le mie nocche sulla scrivania. Un suono regolare invade la stanza, è lo squillo del telefono: è lui che si ricorda di aver lasciato la Chioma di Berenice e la Croce del Sud, di aver lasciato me sotto un cielo di tenebra. Non rispondo. Sono sola nel mio Paese, nel Paese che lui ha abbandonato, ed in grembo porto il figlio di un fuggitivo. Ma io il frutto di questo amore avvelenato non posso permettermi di coglierlo: devo sbarazzarmene.

Il telefono continua a squillare. Dell’amore con l’italiano non posso raccontare a nessuno, finirei per essere ripudiata dalla mia famiglia, emarginata dalla comunità. Se lo tenessi lo scoprirebbero tutti, il colore della sua pelle finirebbe per diventare la mia condanna a morte. Nella mia testa si alternano paure e ricordi delle notti trascorse nuda tra le lenzuola del suo letto ed i cuscini del suo divano. Come può, l’amore, essere così terribile? Vorrei che il colera mi svuotasse di ogni peccato, di ogni malinconia.

Abortire senza un’indicazione terapeutica è reato, ma posso fingermi pazza, posso trovare un dottore connivente, posso fare da sola, posso farlo, posso provocarmi un’interruzione di gravidanza. Devo solo capire come e quando: da sola, forse da sola è meno rischioso. Arrivo in ufficio e mi metto su google a cercare una via d’uscita, scopro che persino in Zambia è possibile procurarsi un farmaco che ha effetti abortivi. Si chiama cytotec, è il… sono paroli difficili, recitano così: “misoprostolo utilizzato per la cura delle ulcere gastriche, i cui effetti indesiderati sono capaci di produrre contrazioni uterine tali da indurre un aborto nei primi due trimestri di gravidanza”. Questa è la strada.

Serve una prescrizione medica, ma decido di tentare presso la clinica di fiducia, la conosco, ho scoperto che mia sorella l’ha fatto, che anche Grace l’ha fatto… proprio Grace, quella che è fuggita con una donna adesso, con una donna. Deve esserci qualcosa di diabolico. Non dovrei. Non dovrei ma non ho alternative. Arrivo all’Ospedale Copto e fingo di avere un terribile dolore allo stomaco dalla notte precedente, dico di aver assunto numerosi antinfiammatori per una tendinite che ho da un paio di settimane. Il farmacista della clinica mi dice che non può rilasciarmi il farmaco senza prescrizione medica o, meglio, che potrebbe fare un’eccezione, ma non la farà perché il misoprostolo ha effetti abortivi. Lo ringrazio e vado via, meglio non insistere. Il panico, lo sento piombarmi addosso, immobilizzarmi. Stai lontano. Provo in una seconda farmacia vicino casa, c’è un indiano che la gestisce. Mi avvicino al bancone e chiedo una confezione di cytotec, la farmacista dice sorridendo che non sa di cosa si tratti. Vado via e sento una voce richiamarmi :“Iwe!”. Mi giro, è l’indiano che mi invita ad avvicinarmi; guarda verso l’ingresso nervosamente e mi invita. Mi prende da parte e mi chiede di ripetere cosa desidero. Io ripeto che ho bisogno di misoprostolo, lui si avvicina un po’ di più e a bassa voce mi chiede per quale ragione proprio del misoprostolo. Lo guardo negli occhi e decido di rischiare: “per abortire, ecco a che mi serve”. Apre una cassetta gialla ed estrae con cautela una confezione del farmaco, guarda verso l’ingresso, tira fuori un blister parzialmente vuoto, prende quattro compresse e mi dice di assumerle tutte contemporaneamente, di farlo con l’assistenza di un’amica fidata, di aspettarmi una grossa emorragia, di fare un’ecografia qualche giorno dopo e nel caso non funzionasse, di tornare e chiedere di lui che mi avrebbe garantito altre quattro pastiglie. Una raffica di parole difficili e importanti, nessun panico, mi sono rimaste stampate in testa una a una: assumile tutte contemporaneamente, fatti aiutare da un’amica fidata, può esserci una grossa emorragia, fai un’ecografia qualche giorno dopo e se non funziona, torna qui e chiedi di me, ti darò altre quattro pastiglie.

Il mio aborto è costato 180 kwacha (ndr circa 17 euro). Arrivo a casa, prendo del succo di mango e lo verso in un bicchiere: vorrei che questi sorsi mortali avessero un sapore dolce, dolce come la libertà che sto cercando di riguadagnarmi. Squilla il telefono, è lui, ancora lui. Non rispondo questa volta. Continua a squillare, insiste, perdo la pazienza e sto in silenzio ad ascoltare cos’ha dire. Mi dice di aprire la porta, è fuori dal gate. L’italiano è tornato in Zambia per me. Mi chiede cosa stia succedendo, cerco di non piangere, non proferisco parola. Mi abbraccia, la sua mano scende sui miei fianchi e si sposta sull’addome. Scoppio in lacrime, lui capisce. Gli dico che è un mio problema, è un mio problema gli dico, lui si allontana e si fa serio, sempre più serio, mi guarda negli occhi e mi sussurra: “no, è un problema nostro”. Non pensavo che un uomo potesse prendersi metà delle responsabilità, non pensavo che qualcuno potesse amarmi. Mi dice subito che la sua missione a Lusaka è terminata e che nell’arco di qualche giorno dovrà tornare in ufficio, lontano, oltre il mare, in Europa, e mi domanda che cosa voglia fare. Se ne va, mi chiede che cosa voglia fare. Gli mostro il sacchetto sul tavolo. Mi porta in camera da letto, si stende tra le mie lenzuola, mi stringe tra le sue braccia e mi chiede se sono sicura. Voglio che quest’incubo non duri un attimo di più, gli rispondo che non ci sono alternative. Prende il bicchiere, beve un sorso di succo, mi passa prima una mano tra i capelli e poi le quattro pastiglie, aspetta che le ingoi, mi porge il bicchiere e mi stringe più forte. È finita.

L’italiano non l’ho più visto, ma di quell’amore improvviso e doloroso come il colera non avrei mai dimenticato niente.

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