un impiegato in favela

Vai com Deus

In Finestra sulla favela Rocinha, Storie di Pacificazione on 11 gennaio 2013 at 13:33

BOPE

È notte fonda dalle parti della piazzetta tra la rua 4 e la rua Dioneia di Rocinha, il pagode della domenica si è concluso e gli abitanti sono tornati alle loro abitazioni per qualche ora di sonno prima di  svegliarsi per una giornata di lavoro duro o per una giornata di  attesa con il bicchiere in mano. Il gringo che  da qualche mese abita nella rua Dioneia si è fermato a giocare con i bimbi di strada: con l’altalena e a pega pega, che funziona così: tu corri per la piazzetta, sui marciapiedi e per strada, e devi scappare da chi ce l’ha, perché se ti tocca ce l’hai tu e sei tu a dover prendere gli altri. Per non farti prendere puoi salire i muri, strisciare sotto i cancelletti delle case,  correre fortissimo lungo i vicoli bui e scoscesi. Tu puoi fare tutto questo, ma se lo fa anche un gringo adulto con te, i poliziotti che stanno sempre all’angolo con i fucili e con le pistole in mano si preoccupano, e, forse anche solo per noia, tirano fuori la pistola dalla fondina, si muovono coordinati, e, controllando in alto che qualcuno dalle finestre non si stia occupando di loro, vanno a chiedere al gringo che  cosa stia facendo e gli chiedono i documenti, e in pochi minuti tutti i bambini di prima sono già scomparsi.

Il gringo mostra i documenti e i poliziotti sembrano più tranquilli, così si ferma a parlare con loro, chiede come va il lavoro, chiede se, passato ormai qualche mese dal loro ingresso nelle strade di favela, comincino a sentirsi più vicini agli abitanti, loro che sembrano sempre così distaccati dalla gente, statue, freddi ma impauriti di ciò che  potrebbe capitargli, durante i giri di perlustrazione, le armi puntate contro i loro fantasmi…

Molte delle favelas di Rio de Janeiro nacquero a seguito dei flussi migratori dalle zone agricole e latifondiste del nord-est del Brasile. I contadini e gli allevatori di cavalli e bovini abbandonavano le terre desolate e dure, di proprietà di un padrone avido e dispotico, per cercare sopravvivenza nelle metropoli in crescita a seguito del processo di industrializzazione. Tali flussi migratori furono incoraggiati dai Governi o dalle industrie private: questo popolo migratorio rappresentava per loro manovalanza a basso costo. La Rocinha è nata a fine ottocento come fazenda (fattoria), in una zona paludosa. All’inizio non c’era che un allevamento di buoi, poi la favela è cresciuta con i flussi migratori europei dei primi del novecento e poi con la suddetta migrazione nordestina a contribuire, con il dolore della schiena dei migranti, alla costruzione del tunnel Zuzu Angel, che oggi, congiungendo il centro della città alla zona sud, perfora la collina Dois Irmãos, così chiamata perché le due cime che la costituiscono sembrano la rappresentazione naturale di due fratelli cresciuti insieme ma in modo diverso, come le due realtà umane e urbane di Rio de Janeiro. La favela Rocinha crebbe servendosi dei materiali del grande cantiere,  e crebbe in un regime di serena autarchia. Ogni lavoratore costruì da sé la sua casa, circondandola della sua rocinha (orticello), nel quale coltivò le verdure da vendere al mercato e per il suo sostentamento, e visse libero, senza capi e senza poteri al comando, nel rispetto della libertà dei suoi vicini di casa. Poi arrivarono gli anni del boom delle sostanze stupefacenti illegali, quali la marijuana e la cocaina, e, per catturare i commercianti illegali, la polizia cominciò a comparire in favela, sfondando le porte di legno e le pareti di  fango e sparando a vista chi presumeva potesse essere pericoloso. Così i commercianti illegali si armarono e si politicizzarono, e diventarono i capi del narcotraffico, costituendo un potere che per un quarantennio strinse la sua morsa violenta nelle strade di Rocinha ma che, d’altra parte, seppe convivere con la popolazione e la protesse dai soprusi di Stato: erano quelle le strade nelle quali i capi erano stati bimbi e nelle quali erano cresciuti, imparando a conoscere i meccanismi, i codici di convivenza e le storie degli esseri umani ad una ad una. Il nuovo regime fu così accettato con la passiva e saggia obbedienza di un popolo che per secoli si è adattato alle invasioni che si sono susseguite, abbassando la testa di fronte al  potere, con il fare del salice piangente sotto alle intemperie nelle leggende associate ad alcune arti marziali orientali, che lascia scivolare sulle sue fronde acqua e neve, senza opporvi resistenza, o come un animale camaleontico, che si confonde con la realtà per evitare il violento scontro frontale, sempre in nome della vita. Fu così che in favela Rocinha si susseguirono al potere: Denir Leandro da Silva, alias Dênis da Rocinha, morto nella sua cella dopo molti anni di  prigione; Sérgio Ferreira da Silva, o Bolado, che non è stato altrettanto fortunato, essendo spirato a causa di una  pallottola vagante nel 1988; Patrick de Souza, che fu catturato insieme ad un armamentario di uso esclusivo – o che tale doveva essere –  delle forze armate ufficiali; Luciano Barbosa da Silva, o Lulu, il capo buono, amato dalla popolazione per la sua politica assistenzialistica verso le famiglie: amava il popolo e il rock’n’roll e aveva 26 anni quando la polizia lo uccise con un colpo d’arma da fuoco, e tutta la popolazione lo rimpianse, si vestì a lutto e accompagnò il suo corpo senza vita presso il cimitero di São João Baptista; Eduino Eustaquio de Araujo Filho, o Dudu, si contrapponeva a Lulu, avendo adottato nei suoi anni una politica repressiva e violenta, e nel 2004 tentò un’invasione della Rocinha, sconfitta dalla resistenza di Lulu qualche tempo prima che morisse. In questi stessi anni ci fu, all’alba del primo giorno del Carnevale, una incursione in favela della BOPE, il battaglione delle operazioni speciali, l’unica forza governativa addestrata ad affrontare gli eserciti del narcotraffico e che porta nel suo stemma un simbolo di morte: un teschio piratesco trafitto da un coltello e due pistole; le forze della BOPE, approfittando del fatto che tutta la città era distratta nelle parate del Carnevale, non esitò a piazzare cecchini sui tetti di alcune case della favela e seminò il terrore nei vicoli, sparando a vista contro ai passanti, condannati a morte perché il destino aveva voluto che nascessero in favela. I loro genitori e i loro amici, che si erano recati al sambodromo per il Carnevale più famoso del mondo, non poterono che apprendere impotenti queste notizie di morte mentre attorno a loro milioni di persone onoravano con balli e canti la festa più felice dell’anno. Più tardi i parenti delle vittime innocenti si costituirono in un’associazione per chiedere giustizia, riuscirono ad ottenere dal Governo un’ammissione di colpa, e rifiutarono il misero risarcimento che questi  volle offrire loro, mentre, contemporaneamente, faceva in modo di annullare la risonanza mediatica della strage di Stato. A Lulu successe Erismar Rodrigues Moreira, detto Bem-Te-Vi, che amava le feste, e in quel periodo incoraggiò la frequentazione delle feste di favelas da parte di personaggi famosi come i calciatori Adriano, Ronaldo, Julio Cesar, Romario, e di cantanti Hip Hop e DJ funky, che partecipavano volentieri per tornare al loro spirito d’infanzia, per rispetto nei confronti della popolazione e dei capi. In quel periodo era sufficiente chiedere al capo il permesso di fare una festa, per un compleanno o per altre occasioni, perché questi accettasse di finanziare la cerveja e il churrasco, lasciando in vendita le sostanze stupefacenti. Antonio Bonfim Lopes, o Nem, fu l’ultimo capo prima della pacificazione, attuata nel novembre 2011 con l’ingresso in Rocinha di un esercito intero, di carri armati, elicotteri e soldati vestiti con la divisa nera morte e il  teschio, e la licenza di uccidere. Seguì l’evento da dietro le sbarre Nem, che prima di  trasferirsi in prigione, si fece sorprendere dalla polizia mentre tentava di  fuggire da solo con la sua autovettura piena di denaro, avendo così vergognosamente abbandonato gli improbabili propositi ostentati fino a solo pochi giorni prima, di resistere fino all’ultimo. Nem, l’ultimo capo, lasciò così nella memoria della popolazione un pessimo ricordo di sé.

Il narcotraffico non è stato sconfitto né è diminuito: fino a che ci sarà la richiesta, ci sarà qualcuno che proverà a soddisfarla, e una legge repressiva in questo caso non fa da deterrente. Tuttavia, il narcotraffico sta cambiando il suo volto: oggi i capi appaiono meno presenti per le strade e gli eserciti del narcotraffico operano contro di loro di notte; ragazzi giovani e molto giovani continuano ad essere arruolati e armati nelle file degli eserciti illegali, ma non si vedono più a girare per  le strade di giorno, né vivi né morti: i loro corpi senza vita vengono portati via di  notte. Il popolo di Rocinha continua la sua vita allegra e confusionaria: pacificazione o no, potere più o meno illegale o corrotto, non ha mai sospeso il suo quotidiano inno alla vita, che continua a suonare inesorabile, insinuando le sue note impetuose nei vicoli e negli anfratti stretti e umidi nei quali si precipitano i bimbi, nelle discariche a cielo aperto insieme a chi vi  si immerge scalzo per cercare qualcosa di utile che per qualcun altro non lo è più, facendole risalire nelle tubature fatiscenti insieme ai topi e agli scarafaggi, senza che  la loro intensità possa essere attenuata, neanche dalla miseria, non dall’abbandono, né dall’emarginazione cui sono soggetti questi luoghi e queste popolazioni del mondo.

Tuttavia, il ricordo delle porte sfondate e delle pallottole che piombavano dal cielo si è fatto ancestrale, se è vero che quando quel gringo, dalle parti della piazzetta tra la rua 4 e la rua Dioneia, dopo aver concluso la sua breve chiacchierata con due agenti della polizia pacificatrice, incamminandosi verso casa, si imbatte in un bimbo alto poco più di un metro che gli grida contro: “tu fala com policia! Tu fala com policia!” (parli con la polizia! Parli con la polizia!), scagliandogli contro odio e sassi e, allo stesso tempo, indietreggiando come se avesse a che  fare con un mostro orribile. Il gringo è disorientato, prova ad avvicinare il bimbo, ma non riesce a raggiungerlo, vorrebbe parlargli, capire, ma non riceve altro che sassi e insulti. Si ferma, osserva il bimbo mentre questi si allontana continuando la sua protesta, poi alza lo sguardo verso una delle finestre sulla favela: vi si sta affacciando un viso magro e nero che si distingue dalla notte per il grigio della testa canuta, il rosso degli occhi assonnati e il giallo dei denti consumati: un uomo anziano ha osservato per tutto il tempo il bimbo, il gringo e la storia che hanno messo in scena in un vicolo quasi deserto e, con le braccia appoggiate al dirimpetto e il petto dalla pelle stanca, si rivolge al gringo scandendo le sillabe con un tono di  voce sospirato, per invitarlo a mettersi tranquillo e lasciar perdere, perché tanto non c’è niente da fare: “vai com deus… vai com deus”, gli sussurra.

  1. Mi è piasciuto molto il tuo articolo

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